giovedì 27 febbraio 2014

el mercà de Marghera

el sabo matina vado al mercà de marghera
dove ea gente e ea vita xe più vera
dove ti incontri sempre quchidun par parlar
e sentirte cussì meno soeo in sto incerto campar

e in sta città cussì martoriada
cussì sporca spusoente e inquinada
ghe vol un bel fià de puissia interior
par non soccomber e ndar zo de umor

forse xe par queo che spesso se ride
che se se consoea e se aceta ste sfide
e anca se no xe fassie e gnanca giusto
no manca mai qualchidun che sea ride de gusto

no voevo scriver ea soita roba banal
dir che qua xe un purgatorio bruto e xe tutto ugual
voevo soeo esprimer un fià de sentimento vero
parché qua gò imparà el vaeor de esser sincero

parché ea gente xe tuta diversa ma in fondo ugual
cò se tratta de condivider par no star tropo mal
parché qua no manca certo e disgrassie
epur ti trovi sempre qualchidun che te dise grassie

marghera par mi xe stada na fameia granda
che me ga acolto e rispetà senza far domanda
che ea se strenze intorno a ti come na mare
che ea capise, ea sta sita e ea te scolta come un pare

in mezo a ste fabriche e a sta aria marsa
eo savemo tuti che ea vita a volte xe come na farsa
che ti pol decider se acoglier o abandonar
e che però ea te insegna a cavartia e a rispetar

come finir na poesia de sentimento
sensa corer el riscio de cascar nel sbrodoeamento
se non disendo grassie Marghera
no me desmentego che ti xe statda anca ea me tera

io se fossi gay

Stavo scrivendo un lungo pistolotto che parafrasava Gaber, titolandosi " io se fossi gay".
Facevo delle ipotesi su come sarebbe cambiata la mia vita sentimentale se fossi stato gay; ebbene, da maschio adulto etero, giungevo alla seguente conclusione: niente.
Riporto un raccontino breve dal mio penultimo libro.
Poi scriverò un post per raccontare come è nato.




Vista

Ciao caro amore,
ti scrivo da questo buco da cui non so mai se uscirò vivo, e che riesco a sopportare solo grazie al pensiero che se ce la farò, ritroverò te.
In questo momento sono steso a terra, protetto da una sorta di coperchio costruito intrecciando rami d'albero, fogliame e terriccio che servono a mimetizzare il nascondiglio.
La matita con cui ti scrivo l'ho presa alla base operativa, e faccio fatica ad usarla perché la carta è umida, quasi bagnata, e non è facile scrivere senza strapparla.
Ti confesso, pieno di vergogna, che ho dovuto rubarle perché ci manca proprio tutto quassù, e se venissi scoperto di sicuro sarei redarguito con severità dal capo squadriglia.
La piccola trincea che sono riuscito a ricavare scavando è molto bassa e tetra; sto quasi tutto il tempo disteso, con l'odore di terra e muschio che m'invade le narici, con i vestiti intrisi di umidità, con le membra anchilosate, in compagnia di insetti e di vermi con cui ormai ho stretto amicizia, ai quali parlo, senza bisogno della voce: comunico attraverso il pensiero, come un folle che crede alla telepatia e cede all'illusione di non essere solo, accontentandosi di relazioni silenziose.
Si vince anche così l'ansia e la sensazione di essere sepolti vivi.
Mi muovo solo per i bisogni fisiologici che comunque devo cercare di ridurre all'essenziale.
Quando lo faccio, ogni piccolo gesto è una benedizione.
Approfitto sempre di queste brevi occasioni per cercare un fiore da portare con me là sotto per odorarlo e guardarlo; oppure per toccare la corteccia degli alberi e sentire le differenze sorprendenti che ci sono tra un tipo e l'altro.
Ormai li riconosco senza guardarli: chiudo gli occhi e li tasto con le mani.
Non sbaglio mai, mi basta un attimo per capire che tronco sia, come stessi accarezzandone la pelle.

Il mio compito, mi si dice, è molto importante.
Io sono un poeta, e talvolta la parola è più efficace delle armi, dicono.
Aggiungono, come a persuadermi con le loro ragioni, che il rischio di non aver testimonianza di quanto succede qui è troppo elevato.
E molti tra i partigiani della mia squadra, sanno scrivere appena il loro nome.
Loro usino le armi; io, in dotazione, ho carta e matita. Ho inoltre una piccola pistola da usare nel caso mi scoprano: prima che mi facciano confessare il poco che so e riveli dov'è il comando sul Pizzoc, da cui si domina tutta la vallata di Vittorio Veneto.
È una postazione troppo importante per essere messa in pericolo dalla mia incapacità di resistenza alle torture cui verrei sottoposto.
Li conoscono i loro metodi e, nel caso venissi scoperto, mi dicono con tono confidenziale, essendo io uomo di grande sensibilità, non potrei sopportare la scientifica brutalità del loro agire.
Perciò, dovesse succedere, un attimo prima che mi catturino, devo mettere la canna in bocca, appoggiarla al palato e premere il piccolo grilletto.
Mi hanno assicurato che non sentirò alcun dolore, che tra il gesto del premere e il sordo nulla della morte, non farei in tempo a contare fino a uno.

Devo tenere i conti, è questo il mio incarico.
Sono appostato sopra il “bus de la lun”, in posizione strategica.
Riesco a vedere il grande orribile buco senza esser visto grazie a piccolissime fessure che fanno passare aria e luce.
Ogni tanto arrivano con una camionetta col cassone posteriore coperto da un telo, usato per il trasporto dei corpi.
Di solito ci sono quattro soldati e un ufficiale che dirige le azioni.
I due soldati all'interno del cassone passano un corpo alla volta ai due che sono a terra; questi altri due si dirigono verso il cratere e lo gettano nelle viscere della montagna attraverso questa enorme bocca spalancata, che li digerisce dopo averli inghiottiti.
Questo mese sono stato qui dieci giorni in tutto.
Copriamo turni di un giorno e una notte ciascuno.
Siamo in tre a svolgere questo incarico: io, un maestro elementare e uno studente universitario.
Al cambio turno che avviene in un bosco a un'ora di cammino da qui, ci salutiamo abbracciandoci, augurandoci buona fortuna, passandoci di mano la piccola pistola.
Poi si risale, percorrendo il lungo tragitto tra i boschi, con la leggerezza di chi si sente in debito col destino soltanto perché è ancora vivo. Raggiunta la base ci si riposa, dopo aver scritto le consegne su un diario a disposizione del capo squadriglia.
Finora ho assistito a quattro incursioni.
Gettavano cadaveri di partigiani, di civili, di donne e di animali. Una volta invece, sono stato testimone dell'esecuzione di un uomo sui trent'anni.
Messo in ginocchio, pistola d'ordinanza puntata sulla fronte, ha ammesso di aver ospitato nella sua stalla tre uomini che conosceva da prima della guerra.
L'ufficiale tedesco chiedeva con voce molto pacata al camerata, che traduceva le domande urlando all'umiliato ostaggio, come un esaltato. Intervallava parole pertinenti a insulti sputati nello stretto dialetto dei monti del Cansiglio.
Poi riportava le risposte all'ufficiale, colorandole di un tono pieno di disprezzo.
Gli hanno sparato in testa, si è accasciato come un sacco vuoto.
L'ufficiale che ha usato l'arma non ha aperto bocca; ha fatto solo un cenno con la testa a due soldati che l'hanno preso per braccia e gambe e l'hanno buttato di sotto.
Mi è sembrato di sentire il suono ovattato del suo corpo che sbatteva sulla parete rocciosa. Immaginavo i brandelli di carne attaccati alle rocce taglienti, le ossa che si frantumavano, la postura scomposta, senza inerzia del corpo che precipitava nel buio denso della grotta verticale come fosse una bambola di pezza.

E così, affaticato, tutto indolenzito, fradicio di terra umida, per resistere alla noia, al torpore e al terrore, penso a te.
Penso a come sarà quando sentirò il calore del tuo corpo accanto al mio, al tuo sorriso di sole, al tuo sguardo di luna, al suono della tua voce, alla tua pelle liscia e morbida, al fiato di miele delle tue parole.
Nel frattempo osservo e ascolto il bosco.
Gli alberi sono infinita meraviglia, gli uccelli musica sublime.
Sono riuscito a prendere questo foglio che uso solo per te, Gino.
E ho scritto queste parole pensando al tuo nome, che è la sola forza che mi rimane.

Ciao,
tuo Cristiano

mercoledì 19 febbraio 2014

pioggia svogliata e cronache cittadine

Piove una pioggia svogliata, cielo grigio, poca luce, nuvole basse a far da cappa alla città.
L'autobus si ferma, salgo con altre diciannove persone.
Sento un urlo, un'offesa a sentire i commenti, pronunciata con tono e linguaggio primordiale. Non ho capito cosa è stato detto, ma vedo correre il ragazzo che l'ha pronunciato, il quale fa gesti all'autista.
Tolgo le cuffiette, voglio capire.
Arriviamo al semaforo, dei rumeni commentano tra loro l'episodio, il ragazzo continua a correre accanto al bus.
Semaforo rosso, l'autista apre le porte, scende, l'altro scappa.
Vieni qua, gli dice, se hai coraggio.
Per tutta la strada, il ragazzo corre, l'autista lo guarda, mentre parla con una biondona russa coi jeans che le segnano il culo.
Attorno a noi, uno dopo l'altro, i negozi chiusi con scritto vendesi o affittasi. Su una trentina di negozi, almeno quindici hanno il cartello in vetrina e le serrande abbassate.
E siamo in centro. Una zona dove anni fa la vita pulsava. Ora è abitata per lo più da stranieri, il valore delle case ha subito un tracollo verticale, i negozi chiudono perché non ci sono più clienti.
Ogni tanto si vede qualche bar chiuso per intervento giudiziario.
Il ragazzo continua a correre.
Ha un giubbotto di due misure più grandi, un cappello col frontino in testa, lo zaino, un paio di braghe larghe, scarpe da ginnastica. È trasandato, pare sporco. Continuano a guardarsi inscenando una sfida piena di tensione e ridicola insieme.
Ho la fantasia che al prossimo semaforo il ragazzo prenderà a calci e sputi il bus, o che gli lancerà un sasso o chissà che.
E corre, continua a correre, pur non avendo l'aspetto di uno che fa sport, che ha fiato e gambe buone, se non per scappare quando gli corrono dietro.
Le fermate si susseguono, la biondona col culo scende, i rumeni parlano tra loro coi loro giubbotti in pelle fuori moda.
Piove, il cielo è grigio, i negozi in affitto o in vendita, uno aperto e uno chiuso, uno aperto e uno chiuso, e via così.
L'autista guida nervoso, tutto frenate e accelerazioni brusche.
Siamo quasi arrivati a Venezia, le fabbriche di porto Marghera non soffiano più fumo.
Questa città sta morendo, penso.
Questo Paese sta marcendo, penso.
E qualcuno pensa che sia a causa degli stranieri.
E molti non sanno che l'idiozia li abita, ed è indigena.
Siamo quasi arrivati, mi rimetto le cuffiette.
Guardo l'acqua bassa della laguna, le rotaie arrugginite del tram, ascolto gli Smiths che cantano " it's time the tale were told/ of how you took a child/ and you made him old...".
All'improvviso una botta, una frenata, una donna senza culo col segno bianco della ricrescita urla.
Tolgo le cuffie.
Davanti al bus il ragazzo giace a terra immobile.

martedì 18 febbraio 2014

conseguenza del riscaldamento globale

Ci sentiamo via skype.
Il mio schermo mi fa vedere la mia faccia e la sua, in formati diversi; oltre ai nostri volti, di contorno, le stanze dove abbiamo i computer.
Da circa un anno ho cambiato residenza; lui solo da pochi giorni.
Prima la mia stanza, dove leggevo e scrivevo, era più stretta e lunga, con le travi del sottotetto che scendevano da due metri e venti a un metro e dieci; ora è quasi quadrata, più ordinata, con scaffali di libri che non stanno nelle librerie in soggiorno, e che dovrei riordinare senza riuscire a farlo mai.
La stanza che vedo attorno a lui invece, è ancora precaria, fresca di trasloco; riconosco scatoloni, con scritte in inglese, con forme e colori diverse da quelli italiani.
Mi capita di chiedermi se siamo noi a distinguerci da loro o viceversa.
Nel periodo post-globalizzazione sono tornate in auge le forti caratterizzazioni nazionali, per chi può permetterselo.

Skype ci costringe a primi piani che a tratti mi mettono in imbarazzo: nessuno dei due ci è abituato.
Ricordo certi film che tentavano di ipotizzare il futuro, e che tra le tecnologie futuribili, c’erano videotelefoni; ricordo che mi chiedevo, allora, come sarebbe stato chiamare qualcuno e vederlo: ora che è possibile, da decenni, addirittura in 4D,  capisco che il sapore tra come si immagina qualcosa di futuribile, e quando l’immaginazione diventa concreta, cambia, e di molto.
L’abitudine accelera e corrompe ogni novità.

Piove, tanto.
Qui e là.
Più là di qua.
La pioggia scroscia talmente forte che dobbiamo alzare il tono della voce.
Ad un certo punto il rumore invade ogni pensiero e ci lascia interdetti. Sento delle voci provenire da un’altra stanza.
Lui si scusa, mi dice che lo chiamano, che lascia un momento la chiamata. Si alza, lascia la postazione, mi fa un gesto con la mano, come a dire che torna subito.

Osservo lo spazio lasciato libero: vedo scatoloni, la sedia sopra cui sedeva, la luce della lampada da tavolo, poco altro, in penombra.
Lo scroscio aumenta di intensità, diventa furioso.
Lo schermo emette scariche elettriche, sembra un vecchio televisore che non trova il canale.
Il rumore diventa un rombo che si alterna al suono artificiale delle scariche grigionere dello schermo, e sembra preludere alla catastrofe.
Sento frasi concitate provenire da altre stanze, voci che diventano improvvisamente urla e imprecazioni multilingue.
Riconosco la voce del mio amico che grida “ le bambine, le bambine, forza usciamo, svelte”.

Prima che lo schermo diventi nero, mi pare di vedere porte e finestre che rinculano, costrette da una massa d'acqua potente e definitiva.
Poi più niente.
Deduco che la corrente è saltata, e che la vita del mio amico, in questo preciso momento, è pura emergenza vitale.

Anche qui piove a dirotto, e la temperatura, pur con la tara di umido, è primaverile.
Sono almeno tre decenni che non torna l'inverno, e il mio corpo ormai vecchio, benché ancora totalmente immune da qualsivoglia malattia, ne risente.
C'è stata la revisione del calendario, che ha ridotto le stagioni da quattro a due, e i miei nipoti sono nati e cresciuti in questa dimensione che considerano naturale e ovvia.
Ma il mio corpo ricorda e soffre di una sorta di nostalgia biologica.
Ricordo vagamente l’odore dell’aria fredda: puro, perfetto.

Si è tanto discusso di riscaldamento del pianeta, senza agire di conseguenza; ci si era divisi, tra chi voleva il contenimento dell'inquinamento ambientale, e chi lo negava, adducendo idee di progresso tecnologico, il quale avrebbe fermato il progressivo ed evidente disfacimento climatico del pianeta.
E mentre il futuro avanzava sempre più in fretta, l'imputridimento terrestre procedeva accelerando anch'esso.
E così, dei pochi testimoni del mondo che fu, siamo rimasti solo noi, vecchi tacciati di nostalgia, nutriti da futurviagra 4.0, da antidepressivi con effetto antistress, rappresentati politicamente da leader ininfluenti, messi all'angolo dal ricatto delle comfort-community residenziali, obbligatorie per chi supera i settant'anni.

E non preoccupatevi per il mio amico.
È già successo altre volte che la sua casa sia stata invasa dalle piene fluviali e dalle piogge incessanti.
Nel giro di un paio di giorni mi chiamerà, ci rimetteremo in videoconferenza con gli amici, e finiremo la partita di scopone scientifico che abbiamo interrotto causa forza maggiore.
Tanto, con i nuovi farmaci antireumatici che ci somministrano qui assieme a quell'altra medicina che ci mantiene sessualmente attivi e mai depressi, rischiamo l'immortalità.
Per fortuna siamo attrezzati, e chi non ne ha più voglia, di vivere, l'eutanasia legalizzata la si può scegliere tra diverse modalità di applicazione: sono tutte indolori, ovviamente, e si differenziano soltanto per la durata.

Ora però devo lasciarvi.
Stanno arrivando i miei due nipoti, che staranno con me le tre ore settimanali, utili a raccontare il mondo che fu, consentendo lo sviluppo della memoria affettiva, diventata ormai pedagogia riconosciuta.
La cosa più difficile è quando parlo loro della neve: non riescono, se non in termini di fantasia favolistica, o di ologrammi, o di parchi a tema, a credere che esisteva in natura.
Del resto, mi viene da aggiungere, perfino io e il mio amico, un tempo, siamo esistiti.

giovedì 13 febbraio 2014

le Operette morali di Leopardi a teatro




Le Operette morali di Leopardi a teatro.

Oggi sono stato al teatro Goldoni di Venezia.
La scommessa era mettere in scena di testi difficili, poco teatrali, che affrontano i grandi temi leopardiani: la morte, la fatica di vivere, la crudeltà della natura, la ricerca fallace della felicità, il dolore.
Vista la premessa, gli argomenti, non è facile pensare al palcoscenico quale ambiente ideale per un’efficace trasposizione.
Martone però vi è riuscito, e solo un grande regista avrebbe potuto. Gli attori meritano anch’essi un plauso: bravissimi.
Ho sentito e visto più di qualche spettatore andarsene prima della fine: troppo pesante per alcuni. Capisco mi dicevo tra me; capisco anche che molti, i più, non amano entrare in contatto con tutto ciò.
Ma lo consiglio vivamente a chi pensa di essere in grado di affrontare due ore e mezza, calandosi nelle questioni nevralgiche dell’esistenza, attualissime nonostante i quasi due secoli passati da quando Leopardi le aveva sviscerate a modo suo.
Digressione:
di questi tempi Leopardi sarebbe probabilmente finito in qualche reparto psichiatrico, avrebbe evitato di affrontare le sue contraddizioni, il suo dolore, e si sarebbe imbottito di psicofarmaci.

Ieri è morto Freak Antoni.
In rete ho visto un video in cui, intervistato di recente, malato, affrontava il tema della morte. Lo faceva citando Osho e altri mistici, dicendo che questi, cui lui dava pienamente ragione, ne parlavano diffusamente, e soprattutto di come non viene affrontata nella progredita società occidentale.
Non posso che condividere questo pensiero.
Nel mio ultimo libro di racconti, il tema è molto presente.
Penso che sia necessario, quasi indispensabile, per poter vivere pienamente.

mercoledì 12 febbraio 2014

la fine della Fini-Giovanardi

Oggi è una giornata molto triste: è morto Freak Antoni.
Ne ho scritto di getto sui social.

Altra notizia: è stata bocciata la Fini-Giovanardi, due geni della politica.
Manca anche la Bossi-Fini, e ci siamo.

Ripropongo la lettera che scrissi anni fa, quando la Legge fu approvata... 


... "E bravo Fini ( il vice presidente, non il bravo giornalista), mi complimento  per la sua lungimiranza in ambito di politiche sociali: i tutori dell’ordine faticano a distinguere chi spaccia da chi consuma? Seghiamo e arrestiamo tutti; diamo in pasto ai giornali chi si fuma una canna a casa, così come chi  traffica droga.
Ancora una volta si confonde il sintomo con la causa e si crede di poter risolvere problematiche complesse attraverso la “redenzione coatta”.
Eppure basterebbe informarsi per venire a conoscenza di elementi basilari quali la “motivazione”, il “riconoscimento del proprio problema”, la “disponibilità al cambiamento”. Insomma, sembra che per questi nostri governanti, il populismo sia un elemento imprescindibile, senza il cui clamore si rischia di venir dimenticati ( anche a scapito della gente).
Dei molti errori del governo, questo mi sembra tra i più deleteri; non concerne infatti i già numerosi privilegi di chi non ne avrebbe bisogno ( loro stessi), ma arriva a toccare le libertà personali di ognuno di noi dicendoci che siamo criminali se esercitiamo il libero arbitrio ( partendo dal presupposto che, dipendenze a parte, ognuno è libero di fare quel che vuole se non nuoce ad altri).
Le statistiche ci dimostrano che i farmaci più venduti sono gli psicofarmaci; l’abuso di alcool provoca migliaia  di morti ogni anno. Ma questi sono legali e ben sponsorizzati da industrie farmaceutiche e aziende varie: e allora va bene, moriamo senza infrangere la legge, onesti e coscienziosi, come ci vuole la pubblicità. Questo mi suggerisce che ci potrebbero essere le condizioni per sospettare la malafede; ma se anche così non fosse, se agisse in buona fede, ancora sbaglierebbe bersaglio: esistono molte pre-condizioni favorenti il malessere, e la droga rappresenta soltanto uno dei mezzi per cercare di alleviarlo.
Spero di aver spiegato le mie ragioni che, questa volta più di altre, sento fortemente legate alla specificità del problema, piuttosto che alle simpatie e/o antipatie di ordine partitico.
Concludo dicendo che seppur cerchi di tenermene lontano, il clima politico incide sempre più con quello sociale ( dal primo vorrei tenere le distanze; il secondo è il mio ambito lavorativo), e lo fa in termini invasivi.
E da oggi non solo e non più in ordine ai tagli ai bilanci, ma anche con l’introduzione di una nuova moralità. Anche se mi rimangono dei dubbi  sull’attendibilità di chi vuole imporla.
Distinti saluti
Cristiano prakash dorigo

mercoledì 5 febbraio 2014

breve resoconto di incontri amichevoli a Venezia: "Esar e scrivar xè beo" di Emanuele Petener


Il rapporto con "Priamo", nato poco tempo fa, vale la pena di raccontarlo in breve.
Nasce dalla rete: ci si incrocia con Emanuele, ci si vede, ci si piace - e lui lo racconta bene nel post -, si sviluppa un'amicizia nata attraverso la comune passione per i libri, e per quello che rappresentano nella comprensione dell'esistenza. Ognuno di noi ha i propri maestri, diversi per ciascuno, e la propria esperienza professionale, anche questa differente. Dopo Emanuele, anche Marco Crestani, il capo - anche se lui probabilmente rifiuterebbe questo appellativo -; con entrambi funziona, in termini di idee, progetti, possibilità di incroci e scambi che hanno come fulcro la "gratuità collaborativa"; non solo e non tanto in termini letterali, ma nel concepire questa, come modalità possibile e alternativa allo status quo del mondo editoriale. 
Credo che questa "sinergia amichevole", produrrà bei prodotti.
Ma al di là di quello che ne uscirà, è il piacere del processo creativo a suscitare entusiasmo.
Il richio della retorica melensa, in questo ambito, è sempre presente. Eppure fortunatamente è così.
Detto questo, copio-incollo questo "pezzo" di Emanuele Petener. 


Martedì, 04 Febbraio 2014 19:23
’Esar e scrivar xè beo
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“’Esar e scrivar xè beo,” mi scrive Cristiano Prakash Dorigo, di risposta alle mie congratulazioni per l’uscita di Un sinuoso contenitore smussato (Priamo/Meligrana, 2014).
“Leggere e scrivere è bello.” È una frase che mi dà allegria: fare una cosa perché la si trova bella. E che altra ragione ci dovrebbe essere?
Si noti inoltre: prima della scrittura viene la lettura, la congiunzione le mette sullo stesso piano, ma c’è poco da fare. Prima viene la lettura, ha un vantaggio di bellezza, si può dire. Che beo.

Comunque, capita un anno fa che nei miei pigri vagabondaggi per la rete incontri un racconto di Cristiano Prakash Dorigo che mi piace molto, e mi piace molto anche quel nome risonante di cristianità, di India e di Venezia: insomma – malgrado si sia entrambi personcine riservate e financo timide – ci si scrive e si decide di trovarci, la scorsa estate, a Venessia naturalmente.

L’appuntamento è a Campo Santa Margherita nell’ora più dolce di un caldo pomeriggio di maggio, e Venezia è più sensuale che mai: i riflessi rosati sulle case, l’ebbrezza studentesca, le ragazze che sorridono, i libri stretti al seno, e i gatti che se ne infischiano. Noi ci sediamo al bar rosso, detto così perché è tutto dipinto di rosso, e si comincia a ciacolare, e lo so che la frase è abusata, ma è vero: mi sembra di conoscerlo da una vita! Sapete quando ci si sente  a proprio agio  e non c’è la necessità d’indossare una maschera? Che forse è una maschera anche quella, chi lo sa.

Con Cristiano, quella volta e poi per tutta l’estate, si parla spesso di maschere. Di vanità, di poesia, di Bolaño, delle sfumature di certi avverbi, e ancora di maschere. Del resto Cristiano xè Venessian, purissimo, sestiere di Dorsoduro, corte Mazor. Ora a Venezia non ci vive più – “purtroppo,” mi dice – ma ci lavora, e la vive attraverso la sua professione di operatore sociale, quotidianamente, profondamente, la sonda, la assorbe, vi trasfonde tutta la sua energia, le calli, i campi, i masegni son tutti suoi: poi scatta una foto e me la manda in Florida. El xè oro.

Orbene, si ciacola, si beve uno spriss, poi un altro, mi fa una testa così con Bolaño. Del resto Cristiano ha, per i libri, una passione non affettata, una passione in cui non manca mai un elemento fanciullesco di stupore, soprattutto quando scopre un artista nuovo, come Bolaño appunto, che alla fine m’ha costretto a leggere. Senonché  ci scambiamo pure le cose che abbiam scritto noi (Cristiano ha debuttato con un racconto inserito in un volume curato da Giuseppe Caliceti e Giulio Mozzi, È da tanto che volevo dirti, Einaudi, 2002) e grazie a Dio abbiamo entrambi superato quella fase primordiale che prevede i complimenti reciproci e lui mi dice chiaro chiaro quel che gli è  piaciuto delle mie cose e quello che non gli è piaciuto, e mi fa domande, s’incuriosisce, si stupisce, e poi torna a parlar di Bolaño, ovviamente.

Io la sua raccolta di racconti Homo Sapiens Nord Est (Mare di Carta, 2011, appena riproposta in e-book dallo stesso editore) me la porto in treno per Roma, e inizialmente sono scettico, la materia mi è lontana per gusto (roba dura, da stomaci forti) e in effetti il primo racconto non mi convince del tutto. Poi però è un crescendo, un’immersione, e fondamentalmente mi entusiasmo per un motivo: Cristiano possiede un modo di scrivere che è  tutto suo, originale, come chi ha l’esclusivo interesse di raccontare una storia e raccontarla nel modo più efficace possibile, lasciando risplendere ogni piccolo angolo del quadro, dal dolore dei protagonisti al portaombrelli sullo sfondo; vi è una forza viscerale nella sua scrittura (fatta di scatti, rimbalzi, ritorni), e trovo alcuni racconti davvero bellissimi (tutti quelli della seconda metà, essendo il libro architettato in due parti) e uno intitolato “Tatto” che – scusate, ma è così che sento –  è formidabile, dove i sentimenti di un uomo lasciato da una donna vengono esplorati come non avevo mai letto prima. Perché Cristiano (e certo il suo lavoro gli ha dato esperienza) è un esploratore d’umanità – affascinato, partecipe, mai giudicante, mai onnisciente –  e non è mai kitsch, non è mai falso. 

Insomma, per farla breve, come ogni volta che trovo qualcosa che mi sembra bello, chiamo subito l’editore di Priamo, Marco Crestani – di solito scrivo una scheda, ma stavolta sono in treno, e poi si tratta di un libro già pubblicato – e chiedo a Cristiano di mandargli una copia di Homo Sapiens Nord Est, e Marco se lo legge da cima a fondo, e anche a lui il libro piace moltissimo, contatta Cristiano, gli chiede se ha dei racconti nuovi, s’incontrano anche loro a Venessia, al bar rosso (io nel frattempo me ne son già tornato in Florida) e si bevono uno spriss e parlano di maschere, di vanità, di poesia, dei libri che hanno letto, dei libri che vogliono fare, e poi Cristiano gli parla di Bolaño.

(di Emanuele Pettener)

sabato 1 febbraio 2014

un sinuoso contenitore smussato







Ieri è uscito “ un sinuoso contenitore smussato”, il mio nuovo libro di racconti, certificato da Priamo, per Meligrana editore, in versione ebook.
E’ una gioia faticosa, sempre, partorire un libro; indipendentemente dall’esito che avrà, ci si lavora a lungo, costruendolo poco alla volta, in solitudine, per poi, una volta fatto, lasciarlo in mani altrui.
Una sorta di mandala, una metafora della circolarità della vita.
Credo sia un atto sconsiderato ma pieno di fiducia.
Credo di farlo proprio per questo.
un caro saluto,
Cristiano