lunedì 25 novembre 2013

giornata contro la violenza sulle donne

Oggi è la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Da anni mi occupo di giovani donne, e talvolta anche di donne che hanno subìto o assistito a violenza.
Posto un brano di un mio racconto contenuto in “homo spiens nord est” che mi pare affronti il tema. non è completo, ma già così è abbastanza lungo, per cui corro il rischio della parzialità. 


“…

La verità taciuta


“  Questa storia è tratta dal diario di una ragazza.
È una ragazza qualunque che ha deciso di dire finalmente la verità che ha nascosto per molti anni.
Di solito tace e lascia che il mondo sia guidato da altri, mentre lei ci si fa condurre.
Ma oggi guida lei, decide lei la direzione; è padrona, e può disporre del suo dire o del suo tacere come meglio desidera. 
E proprio oggi ha deciso di dare luce alle zone d'ombra, di dar voce all'urlo che l'assorda seppur muto.
Parla con un amico di cui si fida.
Sente di poter toccare quel punto duro, scuro, che le fa visita ogni giorno, ogni istante, per avvolgerla e portarla, anche se lei non vorrebbe, con sé. Questo si manifesta con la paura, l'incapacità di credere, di fidarsi, di stare con gli altri, di sopportare la propria ingombrante presenza di donna che sopravvive pur non sapendo vivere.
E così una timidezza vigliacca la soffoca, per poi scatenare una rabbia furibonda con i pochi esseri umani più deboli che incontra, e che la costringe a temere, senza rispettare, tutti gli altri.
Questo parlare somiglia ad una ferrata in montagna: ogni passo è incerto, calcolato, rischioso, e insieme soddisfacente, liberatorio. E piano, con cautela, ci arriva.


Parla di suo padre.
È un uomo cattivo e non c'è nient'altro da dire; ma oggi sì, c'è dell'altro, c'è la verità creduta; e anche se non è detto sia quella vera, è di certo quella che lei percepisce come tale.
Quella su cui ha basato le sue fievoli certezze, sempre pronte a franare.
Lui è cattivo, e poco altro. È un debole e ha sempre bevuto molto, troppo: un binomio perfetto per allearsi con una cattiveria posticcia, gratuita, e perciò prevaricante. 
Pochi giorni prima, insieme all'amico, stava decidendo il da farsi sullo spostamento della madre in cimitero: dopo un tot di anni, è di prassi spostare le salme.
In questo caso, una prassi amministrativa quanto mai sconfinante nell'intimo, nei ricordi, nella speranza che almeno lei, la madre, avesse trovato il meritato, definitivo riposo.

Pochi giorni  prima era col telefono in mano per cercare di capire esattamente cosa dovesse fare.
Oltre ad avere le dettagliate istruzioni del caso, ha fatto un'incredibile scoperta.
Era insieme all'amico, al telefono, che chiedeva informazioni per lei. Parlava a una voce senza volto che rappresentava, in quel caso, una funzione.
Quella voce senza volto, quella funzione li avevano spediti, per poco, in una dimensione di incredulità, come fossero gli attori di un film, o le vittime di uno scherzo di cattivo gusto.
“il signor B********* non è morto. A me risulta abitante in via S******, dove ha sempre abitato”
Quel padre cattivo, beffardo, era risorto. Quel cane rabbioso aveva raggirato perfino la morte. Per alimentare le ansie, per confermare l'immortalità dell'orrore, della paura pura, senza attenuanti e pensieri razionali  consolanti.

Un anno prima, dopo che era stato ricoverato in fin di vita e la ragazza era stata invitata dalla zia, sorella di lui, ad andarlo a trovare: al suo rifiuto, fredde maledizioni. Poco dopo, il giorno successivo, era arrivato un messaggio al telefonino, mittente la stessa zia, che diceva di non preoccuparsi più, che tanto lui era morto.
Un anno prima di quella telefonata.
Quel giorno, diceva all'amico, non riusciva proprio a capacitarsi di come la zia, sorella di quell'uomo, suo padre, quel bastardo cattivo, potesse pretendere che lei lo andasse a trovare dopo anni che non si erano più visti e sentiti, e dopo quello che lui le aveva fatto passare.
L'amico non sapeva con esattezza cosa le aveva fatto passare; sapeva però cosa fanno passare molti padri e madri ai figli. L'aveva letto giorni prima su una rivista di psicologia.
Ed era sempre meno sottile, meno sfumata, meno sofisticata, la violenza. Era ormai manifesta, impudica, priva di sottigliezze psicologiche. Era pura rabbia travasata, trasformata in paura e angoscia, la cui unica scappatoia, è la convivenza consapevole.
Non si guarisce, non c'è possibilità di essere come gli altri; al massimo, si può sembrare come gli altri.
L'articolo finiva in modo da lasciarlo sgomento.
Diceva che questo punto non incontra molti favori in costoro. Era difficile, per le vittime, capire che non esiste un “essere” cui ambire. Ciascuno ha le stesse paure, le stesse angosce, le stesse insicurezze; cambia semmai la capacità di conviverci. Insomma, la tanto ambita uguaglianza, quella che loro pensavano essere incarnata dalle persone normali, che mai avevano subìto violenza, era una convenzione sociale mitizzata.

Arrivano al cimitero della madre, morta quando lei era ancora bambina piccola.
L'ultima volta che è andata a trovarla, sulla lapide ha trovato un foglio scritto a penna. Diceva che il primo conoscente che passava di là, avrebbe dovuto contattare l'ufficio preposto per le pratiche di riesumazione della salma.
Non ha raccontato al collega che effetto le aveva fatto leggere che sua madre era una salma.
Sua madre non c'era da così tanto che poteva essere soltanto un ricordo idealizzato. Incarnava tutto il bene che non aveva avuto. Rappresentava tutti i sogni finiti quando, incolpevole, era morta.
Era la mamma che tutti sognano.
Non poteva perciò essere la mamma che l'aveva lasciata con quel padre cattivo.
Non poteva essere, eppure lo era. Una contraddizione che scarnifica la pelle, che penetra la superficie e s'infila dove vuole lei, dove fa più male.

In prossimità del casello della città esordisce iniziando la frase con “pensa che”. 
L'amico deve forzarsi di “pensare che”: lei è piccola, poco più di sei anni.
Devono uscire e il padre non trova le chiavi.
Non le trova e s'arrabbia.
Gli monta una rabbia cieca, senza ragioni che non siano la rabbia stessa, che deve uscire come schiuma, e schiuma la bocca e diventa notte sullo sguardo.
Cane rabbioso, lui, vede la vittima, lei.
Lei si è stretta sulle sue spalle, che alza per incassarvi la testa e nasconderla più che può.
Alla sua destra, dietro la schiena, il muro adiacente alla porta d'ingresso del sozzo appartamento.
Lui prende un ombrello col manico di legno e glielo punta alla tempia, dalla parte della testa opposta al muro.
Lei è schiacciata con l'orecchio piegato verso dentro, dalla parte del muro, e con la punta dell'ombrello dall'altra.
Le intima feroce di tirar fuori le chiavi, di dirgli dove cazzo le abbia messe: DI DIRGLIELO PORCA PUTTANA!!
Lei è terrorizzata, muta, in black out.
Anche i pensieri lo sono.
Tranne uno.
L'unico sopravvissuto nella bolla vuota e nera che ha in testa.
Dice “controlla in tasca papà”.
Lui dice “no cazzo non son mica scemo dio can”, ma in quel preciso istante, la mano, autonomamente, lo fa;  fruga in tasca e ne tira fuori le chiavi che tintinnano senz'allegria.
C'è un istante di pura immobilità in cui tutto è fermo, inerte.
Il tempo, i pensieri, il male: tutto sospeso.
Un attimo dopo lui crolla.
Scivola sulle proprie ginocchia e da quella posizione le chiede scusa, strofinandogli la faccia sui vestiti, piangendo un pianto sporco, le cui lacrime odorano di merda e di piscio e di bile e di alcool e di pillole.

Mentre raccontava, lei era regredita fino a ridiventare quella bambina.
Mentre parlava, guardando distante l'orizzonte vicinissimo a causa di una nebbia crescente, aveva il tono di chi non sa collocare quel terrore fuori di sé.
L'amico taceva.
Ascoltava.
Accoglieva disgustato la trasmissione del suo disgusto.
Le chiedeva se in lui ci fosse mai stata una traccia di pentimento.
“Sì, forse c'era”, risponde lei. Ma lo dice con un tono che ne sancisce l'inutilità, il ritardo, l’irrilevanza.

“Era cattivo!
Ho ancora la cicatrice sulla fronte di quando mi ha sbattuto con una spinta distratta contro l'angolo del tavolo da cucina. Lo faceva, e se ne pentiva. E un altro segno che per fortuna non sono costretta a guardare, proprio qui sulla schiena, vicino a dove finisce la colonna vertebrale.
E poi dei segni dentro di me. Come quando mi costringeva a guardare mentre penetrava mia madre. Lei stava già morendo fisicamente, la malattia se la stava mangiando. Mi guardava, lui, perché lei girava la testa dall'altra parte; aveva uno sguardo quasi tenero, come volesse farmi capire che l'amava ancora, anche se lei faceva schifo. Come a dire che potevo fidarmi, che lui amava per sempre”.

L'amico, seppur muto, concordava: era cattivo.
Di una cattiveria che non aveva mai conosciuto. Sapeva, perché lo aveva letto in quell'articolo, che la cattiveria esiste in ognuno di noi. È uno stato naturale, che può anche salvar la vita, cancellato però dalla morale che la nega e la relega all'altro: mai a sé.
Ma non l'aveva mai sfiorato a quelle profondità.
La nebbia si faceva sempre più presente, inghiottendoli.
La città era sparita, nascosta dentro quel vapore freddo.
Ad un certo punto non sapevano più dove fossero.
La nebbia aveva cancellato i confini e, senza preavviso, insieme, avevano iniziato a ridere del fatto che si erano persi.
Perdersi aveva tanti significati, quella mattina.
Ridevano, avevano chiesto informazioni, erano tornati in carreggiata.
Dopo essersi persi, in fin dei conti, non si può ritrovarsi.

Il cimitero era grande.
Immerso nella nebbia il cancello d'entrata  li accoglieva, finalmente.
Sbrigavano le questioni burocratiche efficacemente.
Tornavano in auto leggeri.
Partivano trovando subito la strada.
Uscivano dalla città e lasciavano là il cattivo.
Non disturbava più ormai.
Ora parlavano d'altro e  tacevano, anche, senza più peso.

La mattina sfumava ed era l'ora dei saluti.
Facevano ancora un pezzo di strada insieme e poi ognuno andava per la sua strada.
Quando l'amico era rimasto solo, ripensava a quel che si erano detti.
Una sensazione che non aveva forma stava per diventare una domanda: dove poteva depositare, tutto questo peso?
Non lo sapeva di certo; quel che sapeva, è che doveva in qualche modo digerirlo e trasformarlo in energia.
Dopo un po' ci si abituava all'abisso degli altri, diceva l'articolo.
E però non si smetteva mai di vibrare ad ogni nuova emozione, pena la fine della possibilità di entrare in relazione.

Decideva così di scrivere una lettera alla rivista.
L' articolo suggeriva che uno dei metodi migliori è scriverne. Diceva che la scrittura aveva il potere di trasformare quelle angosce, di alleggerire il carico emotivo di chi ne veniva in contatto.
E così aveva fatto: una bella lettera che però non aveva mai vista pubblicata sulla famosa rivista.

…”

domenica 17 novembre 2013

Franco Arminio a Venezia

Incontro con Franco Arminio

Sabato sera in una libreria gremita - la Marco Polo di Venezia, piena di gente  seduta, in piedi e fuori -, l’incontro con Franco Arminio, poeta e persona straordinaria, contraddittoria, dalla mistica involontaria.
Lo confesso: temevo di rimanere deluso dopo anni quasi mai deludenti di incontri e letture in rete; si sa che le persone e i personaggi che incarnano, quasi mai vanno d’accordo.
In questo caso invece no, la concordanza c’è, e supera le aspettative - si dovrebbe aprire una parentesi sul cinismo e la diffidenza che ci abita a causa dei tempi moderni, dei trasformismi, della finzione cui la vita pare costringerci, a cui ci si può ovviamente ribellare essendo disponibili a pagarne il prezzo -.
L’uomo e il poeta grafomane convivono in un unicum; convivenza resa possibile solo in caso di arresa, di accettazione di quel che si è, di armonia con la propria precarietà.
Tutto il racconto di Arminio - paesologo, non-scienza che vede in lui il maggior e unico esperto, anche se si sta formando un corpo docente di tutto rispetto - segue le direttrici del fare qualcosa per fermare l’assurdità del vivere attuale, per interrogarsi, per stare insieme e mettere le basi di una rivoluzione dello status quo, che nessuno sa come si fa, ma per il solo fatto di stare insieme, si è già iniziato.
Il paesaggio geografico e quello interiore vivono e muoiono in simbiosi: nevrosi, psicosi, bellezza, sofferenza, gioia, dolore viaggiano paralleli dentro e fuori.
Si può fare paesologia andando in un paese, sedersi su una panchina,  passeggiare, guardarsi intorno, ascoltare, parlare, toccare; donando e ricevendo coi sensi e coi sentimenti e con le emozioni ciò che il posto ha e è.
E intessere così relazioni col mondo, con gli esseri umani, con la terra e l’aria e gli animali.
Soli si muore, e in solitudine.
Mi è parso di capire che chieda solo di essere pensato, scritto, disegnato, comunicato, ricordato, e soprattutto abbracciato.
Ecco, la rivoluzione potrebbe iniziare dai sorrisi, dagli abbracci, dal finirla di nascondere le proprie ferite, le debolezze, le fragilità.
Arminio è un monaco che ha bisogno d’amore: ricevuto e donato.
E ne scrive compulsivamente
E non se ne vergogna.
E io lo ringrazio per questo.

venerdì 15 novembre 2013

Librai per un giorno

Iniziativa a Venezia il 30 Novembre

Continua la collaborazione tra librai e scrittori. Dall'evento "Venezia città di lettori" sono scaturite diverse idee: la partecipazione attiva ad "art night" con la staffetta librerie-scrittori, il progetto "piccoli maestri" - vedi link -, e adesso quest'ultima.
Alcuni scrittori saranno in libreria e consiglieranno letture agli avventori.
Io sarò a Mare di carta alla mattina. Ho pensato di proporre, vista la caratteristica della libreria, specializzata in libri di mare - di cui so molto poco, e quel poco è già presente negli scaffali della stessa -, di affrontare il tema del viaggio: sia esso classicamente inteso, oppure nella versione del "viaggio interiore". Scartati appunto i classici, che uno conosce già, ho ritenuto di proporre alcuni dei libri che ho amato, che c'entrano col viaggio, e che magari sono meno richiesti, soprattutto in una libreria specializzata.
Ecco la lista di libri che ho concordato con Cristina Giussani:

- Shantaram David Gregory Roberts Neri Pozza
- Signore delle lacrime Antonio Franchini Marsilio
- La lucina Antonio Moresco Mondadori
- 2666 Roberto Bolano Adelphi
- Middlesex Jeffrey Eugenides Mondadori
- Verso la libertà interiore Jiddu Krishnamurti Guanda
- Il libro dell'inquietudine Fernando Pessoa Feltrinelli

mercoledì 13 novembre 2013

grandi navi a Venezia

Poche considerazioni sulla questione grandi navi.
Ho l’impressione in questi giorni di assistere ad un braccio di ferro tra chi ha tirato un sospiro di sollievo per la loro progressiva sparizione dal bacino di San Marco, e coloro che sostengono che questo porterà a un impoverimento di ordine economico.
Personalmente sono contrario al passaggio delle navi, ma questo non mi impedisce di riconoscere le ragioni di chi non la pensa come me.
Credo però che non andrebbe dimenticata la questione di fondo: la  precisa responsabilità di una classe politica che ha al solito giocato sporco.
Provo quasi vergogna a scrivere così, per quanto è banale e ripetitivo ma purtroppo non posso fare altrimenti. Devo ricordare che non possiamo dimenticare il dramma collettivo vissuto col cvm; non possiamo in nome del lavoro scordarci che se di lavoro si muore, allora non ne vale la pena; non possiamo non avere a mente che la salute è qualcosa di più complesso di una semplice, apparente assenza  di malattia.
Mi è insopportabile l’idea dei danni che potrebbe creare un pur anche banale incidente di una nave di quelle dimensioni. E onestamente non ne posso più di sentir dire che la gente paga per vedere il panorama di Venezia ad altezza grattacielo. Sono tutte scuse, tutti pretesti per giustificare la debolezza di una pianificazione strategica a monte.
Quando si concepisce un’opera di queste dimensioni, bisognerebbe pensare a tutto, e in primo luogo alla salute, all’impatto che avrà, alle possibili conseguenze. Ma purtroppo non è così. Come insegna di recente il Mose, l’unico interesse è l’interesse economico.
E come sempre accade, si riversa tutta la responsabilità a chi dice “no, non ci sto!”.
La questione del porto turistico, va pensata a monte. Non sono i manifestanti ad avere la responsabilità di possibili perdite economiche, dei licenziamenti: no!
Sono di coloro che amministrano! Ma perché non lo capiamo, perché non chiediamo loro di rimediare, e nel caso di pagare in prima persona?
Perché accettiamo di fare i soldatini di una guerra tra poveri?
Perché accettiamo di non avere risposte a questi perché?

Cristiano Prakash Dorigo
Venezia

venerdì 8 novembre 2013

incipit futuribile

Questo potrebbe essere l'inizio di un lavoro che adesso mi spaventa, perché mi pare senza fine.
Mi aggrappo così all'idea che tutto ciò che inizia, prima o poi finisce.
Prima di questo però, ce ne sarà un altro.
Forse.

"...
La strada in discesa è ripida, piena di curve e tornanti.
All’interno della fiat 124 1200 cc. bianca, mia madre guida stando vicina al volante, al punto da abbracciarlo, quasi. Altra caratteristica è quella di tenere  quasi sempre il piede sulla frizione, come appoggio. Accanto a lei mio nonno, anche lui, come tutti gli altri di famiglia, senza patente: gli anni settanta, le avanguardie, le istanze femministe, producono anche questa piccola rivoluzione: l’unica autista di famiglia, una donna.
Sul sedile posteriore mio fratello, mio zio - il fratello di mia madre ha un anno più di me, uno zio-fratello - ed io, l’intero divano a disposizione, la seduzione della finta pelle, l’aria che entra dai finestrini, le montagne immense coperte di verde dal fitto bosco, rendono l’estate una sempiterna vacanza umorale.
Procediamo lungo la discesa, una curva dopo l’altra, tornante dopo tornante, il fischio dei freni, il rumore ferroso della marmitta, la forza centrifuga che ci spinge da una parte all’altra, che ci avvicina forzatamente, come tre fratelli che si stringono per contrastare gli elementi.
All’improvviso uno scossone, una sterzata nervosa, il piede che preme il freno, su e giù, con energia, senza trovare riscontro.
Mia madre che dice che il freno è partito, non risponde, il piede su e giù. Mio nonno le dice di scalare le marce, “SCALA LE MARCE” urla, scala!
Le rocce contenute dalla rete metallica sulla destra, il guard rail e la valle giù in fondo al burrone sulla sinistra, sono una minaccia concreta.
Mia madre scala le marce quarta-terza-seconda, il motore urla, l’auto rallenta a fatica. Il motore sembra gridare il suo dolore, sembra dire che è oltre il suo limite meccanico, tossisce, sputa, scatarra.
A breve distanza s’intravede un piccolo tratto di piano, appena dopo la curva a destra.
Mio nonno si era appena voltato, ci aveva guardato, aveva sorriso.
Poi si era rigirato troppo di scatto per confermare quel sorriso.
Mia madre urla “ATTENTI BAMBINI TENETEVI SALDI”, e l’ultimo tratto della discesa si avvicina sempre più alla rete che tiene le rocce sulla destra. Appena inizia il tratto pianeggiante, vede una piccola rientranza per le soste, sterza a destra, striscia la fiancata, le rocce rallentano la corsa fino a fermare l’auto.
Mio nonno è bianco in viso, ma si volta e ci rassicura che va tutto bene.
Mia madre affonda il viso tra le mani aperte, singhiozza, s’arrende e s’affloscia quasi, al sollievo.
Mi alzo e cerco di passare tra i due sedili anteriori e raggiungo non so come mia madre.
Le carezzo la testa, la spalla, e le dico di non preoccuparsi, che ci sono qua io con lei.
Lei alza la testa, si volta verso di me, mi sorride un poco, mi carezza lasciando una scia umida di lacrime..."

martedì 5 novembre 2013

before midnight

Sabato sera sono andato al cinema a vedere "before midnight".
È il terzo episodio di una serie che probabilmente non si concluderà con questo, e racconta la storia di una coppia quarantenne alle prese con la manutenzione della propria storia d'amore, minata da incomprensioni e vicissitudini, che chiunque ne abbia esperienza diretta, conosce.
Ci sono elementi legati al rapporto uomo-donna che sono eterni e irrisolti, e che, sfiorando luoghi comuni e verità universali, vengono raccontati con delicatezza e un certo stile.
Appunti sparsi:
Lei vorrebbe cambiare lui, lui non vuole;
Lui vorrebbe che lei rimanesse quel che è e lei se ne sente oppressa;
Lei pensa che "lui non capisca", lui pensa che lei non " capisca che lui la capisce";
Lei gli dice che spesso si sente sola, lui pensa di fare tutto ciò che può perché ciò non accada;
Lei pensa che lui prima o poi si stancherà di lei, lui pensa di no;
Lei crede che lui abbia approfittato di momenti di libertà per scopare altre donne, lui le risponde che ama solo lei;
Lei gli chiede se lo amerà per sempre, lui non risponde nel modo che lei si aspetta;
Lui le dice che l'ama, lei pensa che lo dice sempre nel momento sbagliato e magari per un secondo fine;
Si feriscono rinfacciandosi verità parziali eppure autentiche.
Insomma: le solite incomprensioni di coppia a cui pare non ci sia rimedio. Da sempre.

Lei mi è sembrata una straordinaria attrice, lui un po' meno.
Non dirò la ragione, ma mi è piaciuto, pur riconoscendone le imperfezioni e la prossimità ai luoghi comuni di cui sopra.

Posto un estratto dal primo racconto del mio ultimo libro che presumo parli di quel che succede nella realtà. A volte le storie durano, altre finiscono, altre ancora fingono di esistere, certe altre si stabilizzano sull’apparenza.
Del resto la vita non è un film, nemmeno un romanzo, e tutto è molto meno letterario, coraggioso, avventuroso di quanto ci piacerebbe credere, inducendo confronti e ripicche perché quello che è non è mai come si pensa dovrebbe essere.

"...
Mi guarda stupita. Tace, per la prima volta da quando la conosco, non apre bocca.
“ Quando ho conosciuto Sara, ho sentito per la prima volta una totale fiducia nei confronti di un'altra persona. Ho sempre faticato a lasciarmi andare, ma con lei ci sono riuscito.
Con lei potevo dire tutto, fare tutto. Con lei potevo tacere e lasciare che il silenzio comunicasse per me.
Con lei tutte le porte erano sempre aperte, tutte le ore erano tempo buono, sano. Con lei ho creduto di capire cos'è l'amore.
È stato per questo che mi sono lasciato arrivare qui e ho deciso, prima volta in vita mia, di provarci. Mollare tutto è stato semplice, come lasciare qualcosa di cui non ci importa niente. Poi non so cosa succeda, ma le circostanze modificano un poco per volta gli assetti senza che ce ne sia una esatta percezione.
Lentamente, come il movimento della terra, ci si trova da un'altra parte, si sottrae qualche parola, si tralascia qualche abbraccio, si tengono con sé piccoli segreti. E così, una promessa, diventa delusione, e l'amarezza colora di grigio tutto, sbiadendo le tinte, sempre più smunte.
E allora, di nuovo, torna la sensazione di amaro, il mattino diventa di nuovo fatica, la complicità si affievolisce e la noia ci mostra i piccoli anfratti in cui ci si tuffa quando si vuole avere ragione a pensare che le cose non vanno più bene, hanno perso sapore, e quei difetti, quelle piccole crepe, si allargano e diventano buchi, e poi voragini.
E torni a pensare che non sei fatto per la vita di coppia, che le tue debolezze, il tuo bisogno di star solo, la tua inadeguatezza, hanno vinto di nuovo e che sempre sarà così. Pensi che non riuscirai mai a portare a termine nulla e che appena il traguardo, la meta, si manifesta, tu prendi una deviazione e vai, sapendo che non potrai più tornare.
..."

venerdì 1 novembre 2013

recensione homo sapiens nord est - dal blog libereditor -

con l'uscita dell'ebook il libro vive una seconda vita.
Immagino sarà tormentata quanto la prima, e non mi dispiace, in fondo.
Ecco una bella recensione, di un bel blog: libereditor.


Inarrestabile lava 

Il pomeriggio è stato un tempo senza tempo. E’ scivolato lungo i doveri che una casa richiede. Il senso di questa giornata si farà viva forse stasera, con la saggezza e la quiete del buio. So già che domanda e risposta verranno da sé, nascendo da luoghi cui non posso accedere, ma che devo soltanto accettare. Le intuizioni non hanno scorciatole e non usano trucchi. Sono semplici e quando vengono, le si riconosce subito, poiché lasciano una scia di verità autentica. D’inverno il buio arriva presto, circonda le case, si cala sulle strade come nebbia inconsistente oscurando la prospettiva visiva e calmando la frenesia interiore. Questa sera non sono uscito, preferendo stare a casa solo, in silenzio; sentivo che sarebbero giunti segnali, da tradurre in azioni, in scelte. … 



















homo sapiens nord est
Quindici racconti, due capitoli: storie a nord est, sensi a nord est. Monologo lirico, a solo per voce, poema filosofico, delirio, visione, sogno allucinato… Lo spettacolo della verbalità umana sfrenata affascina perché forse solo essa può riprodurre con sempre nuova inventiva lo spazio interiore delle nostre menti. Colpisce il ritmo lacerato e folgorante di questi racconti, che travolgono e mettono a fuoco una realtà che a volte infastidisce, ma che al contempo si mostra affascinante e impetuosa. Il testo di Dorigo non conosce la pausa, la calma e la tregua degli a capo. E’ un’acuminata, inarrestabile e fluente lava che non segue nessun movimento, rettilineo o circolare o a spirale: non prende le mosse da un punto per arrivare a un’altro. E’ il seguito di linee sospese e intermittenti, di repentini cambiamenti di tono. Trascina con sé, in un unico e prezioso impasto, una massa di materiale dissonante e stridente, una serie di frammenti scomposti…
Cristiano Prakash Dorigo, Homo sapiens nord est, Mare di carta, 2012.