lunedì 21 ottobre 2013

passaggio

Passaggio Il mio corpo sta assumendo un disegno strano, più curvo, rotondo: ora è un sinuoso contenitore smussato, la scatola magica che contiene il mistero biologico della vita. Eppure guardandolo così, come ritorno immediato, me ne sento offesa, disgustata. Non mi piace la figura che vedo allo specchio quando mi guardo: questa è la verità. Perché io debba pagare un prezzo così alto, non mi è dato di saperlo; e niente e nessuno, comunque, potrebbe convincermi che un ritorno alla normalità in pochi mesi, sia una promessa che compenserà questo disagio, questo degrado. Il mio posto nel mondo, il mio ruolo, quello che sono certa di rappresentare, sono compromessi da un’estetica sconveniente e sproporzionata; le mie già precarie sicurezze, conquistate in anni di fatica, di studio, sono minate, da dentro, da una percezione contorsionista che fa le capriole, che mi fa perdere e ritrovare, direzione e padronanza. Ho letto molto e so che posso avere degli scompensi, alti e bassi, che non sono altro che il risultato di impulsi elettrici, reazioni chimiche, battaglie ormonali, lotte psicologiche. Sono un laboratorio; un grosso tondo laboratorio che girovaga senza agilità per un mondo che osserva e giudica. Chilogrammi, taglie elefantiache di mutande e reggiseni, vestiti larghi a caduta perpendicolare, mutazioni e trasformazioni. Leggo i pensieri degli altri e vedo scritte parole sarcastiche quando pensano a me. Lo so sì, lo so da me che sembro un pallone con testa-braccia-gambe. Eppure tutto questo svanisce con un calcio, un impercettibile movimento, un cambiamento di posizione. Tu, immersa nel liquido, nel silenzio reale e irreale del misterioso mondo sferiforme, galleggi, circoli liberamente, fai piroette circensi. Mi pare che te la spassi, e sento una sorta di gelosia mista a contentezza, per questo. Il tuo pubblico siamo io e te; solo io e te. E per uno strano sentimento di sufficienza, tu ed io, siamo tutto ciò che desideriamo; siamo un piccolo mondo, ma mai vorremmo che qualcuno venisse a curiosare tra i nostri segreti, che venisse a farci domande cui mai risponderemmo, in quanto sono solo affari nostri. Nella situazione complessa in cui ci troviamo, regna la semplicità e governa la delicata legge della natura e dell’istinto. Io mangio, tu mangi. Io rido, tu godi l’allegria. Io piango, tu scimmiotti rattristandoti. Non sono mai sola così; non posso nascondere segreti segreti; tu in qualche modo sai, senza sentire: il contatto diretto ci unisce, il cordone è un megafono. Mi ritrovo sempre innanzi a salite e discese, alti e bassi, precipitosi cambi d’umore, repentini, improvvisi, temporali e tuoni e fulmini e ventate fresche nel caldo d’estate. Non c’è mai una stabilità stabile: soltanto le mille piccole instabilità che senza volerlo, mi causi; che hanno una strana forma di disciplina, un equilibrio da tiro alla fune. E il mio corpo è sempre un segnale da codificare, un’attività perpetua, composta di scatti, frammentata, disordinata ma viva, saporosa, odorosa, vitale. Quando mi fai stancare tanto, la schiena mi duole, i piedi come braci, il sudore che bagna la pelle. Non riesco a razionalizzare il sentimento. So a malapena collocarlo nel delicatissimo disegno universale, che si autoalimenta, che basta a se stesso e che provvede al mantenimento delle specie. E credo questo ci preparerà al dopo. Ci sono gli alti e i bassi, e occorrono forza e gioia per introiettare le contraddizioni della vita. Noi ci stiamo allenando insieme a separarci; a passare dalla beatitudine dell’unità, al lutto della separazione; dall’eliminazione della dualità, al dispiacere di sentirci vicini ma pur sempre lontani rispetto al prima: al nostro adesso. A me spetta il dolore del corpo dilatato, che espelle una parte di sé che diverrà un’altra esistenza che non sono più io, ma tu. Ore a lavorare sodo, a respirare con ordine, col diaframma; lenta, su e giù, pancia in fuori inspiro, pancia in dentro espiro. E sarò maschera di sudore, bocca spalancata che urla, forte, come a sputare il dolore; forte, fortissimo, insopportabile: AHAHAHAHAHAHCHEMALECHEFA!!! E avrò mani vicine da stringere con forza, che mi sosterranno, ma che non sapranno mai il nostro dolore, la nostra forza potente, importante, durissima perché fragile e sensibile. E tu dovrai lavorare, spingere, comprendere quando è il momento. Sarai ancora in contatto con me, ma saranno le ultime volte prima di affrontare lo scivolo delle viscere e terminare il viaggio, che inizierà proprio allora. Contemporaneamente uscirai ed entrerai; dal mondo perfetto a quello imperfetto. Dal silenzio magnifico della felicità assoluta, al frastuono, alle luci. E piangerai perché non saprai perché; non subito almeno. Poi passerai da mani che non conosci, che fanno paura ad un posto morbido; riconoscerai un odore acre mai sentito ma familiare, una voce mai udita con quelle tonalità, ma dolce. Piangerai con forza, con totalità; ma quella voce, quella sofficità, quel profumo ti calmeranno. Per la prima volta sarai nel momento, nel punto esatto, dove qualcosa finisce per ricominciare subito dopo, in altro modo: tutto da imparare, capire, tradurre. Adesso, se appoggio le mani sulla curva rotonda della pancia, sento un piede e riconosco la tua risposta. Questi pensieri non erano solo miei; li hai indotti tu con la tua ingombrante presenza, con l’alfabeto del tuo movimento, con la danza acquatica che mi disegni dentro. So che arriveremo alla fine esausti, ma resisteremo e trasformeremo la nostra unione in qualcosa di nuovo, forte, complice. In questo continuo rutilante miscuglio di emozioni sonore come schiaffi, fragorose come il silenzio assoluto, si aprono dei piccoli varchi e io, in quei piccolissimi pertugi, posso depositare amore; amore materno, amore senza ragioni, perché uscito vivo da lotte leggendarie e leggi universali. L’altro giorno ho visto la tua prima fotografia in bianco e nero. Nel monitor, come in un film, ti muovevi senza fretta, con grazia. Ti sei mostrata nuda e libera e fluttuante. E ho anche sentito il tuo primo suono: un galoppare frenetico, un tambureggiare tribale; il tuo cuore echeggiava nel mio mare, la tua casa, la mia pancia. Dopo un po’, non subito, ho continuato a sentirti, a percepire il tuo linguaggio delicato e ho sentito una stretta fortissima al cuore, una morsa d’acciaio, improvvisa e ho capito che per sempre saremmo stati legati, pur nella nostra unicità, avremmo condiviso per sempre un legame che è semplice e vitale e assolutamente involontario; è un marchio a fuoco che non abbiamo deciso, ma che abbiamo ereditato. Ora non resta che aspettare che si compia il meccanismo naturale. Uscirai da me, ma non preoccupartene: sarò lì ad accoglierti e stringerti. E ti nutrirò e rassicurerò. Sarò sempre con te fino a quando servirà, poi spero di riuscire a lasciarti andare. E un giorno ti leggerò queste righe e insieme ne sapremo ridere, con spensieratezza e leggerezza. Ti aspetto. Buon viaggio.

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