mercoledì 30 ottobre 2013

Festival dei matti 2013

Anche quest'anno il festival dei matti. E anche quest'anno, ancora, parteciperò, collaborerò, ne parlerò. Il festival - concepito, sviluppato, faticosamente tenuto in piedi da Anna Poma - è stato pensato in origine per discutere di un argomento di cui nessuno ha voglia di discutere: la follia, nei suoi risvolti sociali, nel suo far parte e contribuire al potere di una certa parte, a discapito di quell'altra che quel potere lo subisce, per dire, sottovoce, ma anche urlando se serve, che la follia è parte di ciascuno di noi, e non viceversa - nel senso che si vorrebbe ghettizzarla al malato di mente conclamato e in cura, cosicché la società, che poi saremmo noi, ciascuno di noi, abbia da non curarsene, salvo poi scoprire, laddove la si incrocia, la si sfiora, ci si deve fare i conti, che è un male che si può guarire e gestire, e che se non lo si nasconde, non solo non rovina l'apparente estetica che ci costringe a consumare e consumarci per conformismo, ma assumendosene civilmente la responsabilità, ci costerebbe meno in termini economici, politici, terapeutici -. Questo non significa affatto sottovalutarlo, anzi: può essere estremamente doloroso per chi ne è affetto e per chi gli sta vicino; ma isolarlo, nasconderlo, chiuderlo tra quattro mura - siano esse istituzionali o casalinghe -, ne aumenta le difficoltà. Anche quest'anno dibattiti e spettacoli, concentrati in tre giorni - 8, 9, 10 -, in centro storico a Venezia. Sulla colonna dei link c'è la possibilità di visitare il sito, che consiglio. Io ci sarò, e spero di incontrare molte persone. Cristiano

venerdì 25 ottobre 2013

Report di un'esperienza collaterale alla biennale 2013

Report progetto "libera tutti", sede Caritas, Arsenale, Venezia, nei giorni della Biennale 2013 1 L’appuntamento è alle 14 alla Biennale dell’Arsenale. Arrivo, dopo una mattinata di corsa: un concorso a premi per studenti, cui sono stato invitato a testimoniare l’esistenza corporea di uno scrittore, a raccontare brevemente l’esperienza di “Venezia città di lettori”, a dire la mia sulla passione per la lettura e la scrittura, a leggere una poesia di Carver. Tra questi due eventi, un panino con le olive, formaggio stravecchio, mortadella biologica vegetale; l’attraversamento di una città media, con tempi di percorrenza da metropoli ( la terraferma e Venezia sono amministrativamente una, ma urbanisticamente molte). Per strada almeno una dozzina di Yachts - e forse anche di più - degni di Montecarlo; una marea di gente che se la gode prefigurandosi già il ritorno a casa, dove potrà dire di essere stata a Venezia, città folle di folla, di arte e artisti, di bancarelle made in china, di rumeni vestiti da carnevale per farsi fotografare con obolo, di venditori di ogni dove, di trecento idiomi in pochi metri quadri. Arrivo, Camilla è già là con Andrea, il capo, e i suoi collaboratori - o soci - italiani e francesi, con espressioni e modi di chi pratica il mestiere dell’arte. Entro nella sede in cui si svolgerà l’incontro con gli abitanti del dormitorio Caritas, che faranno con noi questo progetto, in cui l’arte servirà come tramite per una maggior consapevolezza di sé, di come si muovono in città, di cosa vogliono, cosa fanno, chi sono. Sì, certo; ma non posso nascondermi il pensiero che si possa ribaltare il concetto, e che l’arte abbia bisogno di sempre nuovi soggetti per svilupparsi, ampliarsi, penetrare nuovi ambiti, scuotere nuove coscienze, vendere stupore con forme incomprensibili. Un nutrimento reciproco, un mutuo aiuto muto. In realtà, già dal primo approccio, si capisce che qui, di muto, non c’è nessuno. Tutto è frizzante, eccitato, pregno dell’euforia che anima le esistenze che sfiorano la biennale di arte più importante del pianeta terra. E nemmeno gli oggetti, sono muti: la mensa è una stanza verde, i tavoli in legno, gli sgabelli dove sediamo, il cortiletto, la cucina, l’ufficio dove deposito lo zaino pesante ( che ho portato con me per non sentirmi sguarnito, solo, nell'incomprensibile abbaglio); tutto pulsa di restauro, di resurrezione, di superfici rimesse a nuovo, di sudore e di confidenze che i restauratori, gli ospiti del dormitorio, hanno concesso loro, nell’irrefrenabile logorrea che da lì a poco avrei tastato col corpo, coi sensi, con un sottile piacere dovuto al contatto relazionale. Andrea è ebbro di felicità, non si ferma mai, parla tre-quattro lingue, interrompendo i discorsi, per riprenderli nel punto esatto in cui li aveva lasciati per interloquire con il nuovo visitatore. Tesse le lodi del suo progetto come solo gli addetti stampa sanno fare: facendo iperboli, gonfiando il senso, facendo compiere alle parole capriole estetiche, sottintendendo plurimi significanti. E’ allegro e simpatico, intelligente, e presumo che dopo, concluso il tutto, l’energia spesa produrrà un down abissale. Lo dico non per banale giudizio, ma perché conosco quel tipo di eccitazione adrenalinica che sorregge corpo e spirito, che si conclude con lo schianto, del corpo e dello spirito, nella sbadigliante normalità quotidiana. We can be heroes, just for one day. E per oggi dovrei, assieme a Maurizio, il giornalista in ritardo per cause professionali, fare lo scrittore che traduce in parole, un clima e un’esperienza, con i simpatici ospiti del dormitorio, che uno alla volta si stanno presentando. Tutto è un flusso energetico eccitato; tutto è contagiato dalla palese follia artistica; tutto è ciò che qui, ora, dev’essere: siamo alla biennale di arte di Venezia, baby, e ce la giochiamo fino in fondo. Insomma, per essere degli eroi, oggi, ci tocca aspettare le 15.30: un’ora e mezza dopo l’orario fissato. Tutto è relativo, il tempo è un’invenzione umana che non si sposa bene con l’arte di essere artista, il postdatato è un neologismo già caduto in prescrizione, la puntualità è una minchiata borghese. Le colleghe di Andrea sono molto belle, e hanno l’aria, lo sguardo, le acconciature, l’eloquio, il look di chi, nei vernissage, è un habitué. Il mio personale ottundimento, invece, rende la mia inadeguatezza alla mondanità, un particolare senza importanza. Con Camilla e Serena, una giornalista free-lance dell’Eco di Bergamo e del Manifesto, guadagniamo il bar pizzeria che sta nel campo attiguo alla struttura. Prezzi, trattamento, da grandi occasioni: stai per farti fottere, caro, ma goditi lo spettacolo d’arte varia. Attorno a noi un flusso inarrestabile di gente. Tutti sono carichi, attentissimi a sembrare indifferenti. Tutti vestono come se l’arte avesse un codice interiore che solo loro conoscono. Accanto a noi una coppia con lineamenti da russi morti di fame ma artisti; lui indossa una giacca lilla, una maglietta forata bianca, una collana degna di Scampia; lei, come lui, è scavata in volto, una frangetta netta, un soprabito sottratto a Wanda Osiris, tacchi altissimi. Parliamo di Venezia, di Bergamo, di cinema, di arte, di prossemica veneziana, di profitto che tocca sempre agli altri, che per noi la gratuità è la condizione esistenziale. Il tempo vola, la gente sembra traboccare dal nulla, invade ogni spazio. L’esercito di bengalesi assunti in nero per fare i camerieri continua a passare a velocità supersonica lasciando galleggiare nell'aria idiomi anglosassoni speziati. Controlliamo l’ora: è l’ora, ci diciamo; ci alziamo, paghiamo il conto. All’interno del locale il brusio è un’onda sonora poliglotta insopportabile. E’ pieno di belle ragazze, di bei ragazzi, di bella gente. C’è un momento in cui tutto tace, tutto si ferma: un silenzio inverosimile ci avvolge, ci fa sentire vivi, vitali, grati di essere lì, in quel preciso momento, al centro del mondo. Un mondo in cui l'arte prova a uccidere l'artificio compiendo al contempo un delitto e un suicidio. Ma non è così: era solo un artificio letterario che ho inventato io, per concludere la prima parte. Parte 2 Eccoci seduti attorno al tavolone della sala mensa. Siamo una dozzina, in attesa di rimettere ordine alla rutilante sequenza di eventi subitanei. Andrea ci rispiega come fare, cosa fare, perché fare: lo ascoltiamo devoti, come timidi discepoli, ammirando in silenzio la sua energia vitale. Al tavolo ci sono sei ospiti della struttura, due scrittori, una giornalista, una rappresentante culturale del comune, due suore. Rompe il ghiaccio già rotto da Andrea, Alfio, il più colto matto simpatico estroverso circense del gruppo ospiti. Il suo esordio (toccando una copia del manifesto che ributta sul tavolo schifato): "i comunisti non li posso vedere". Compare in piedi Lupo, il poeta creativo vestito in polo, cravatta e giubbino: è l'addetto vendita delle scarpe-giusto-per-tirare-su-il-budget. Capelli bianchi, la sua età, lingua vernacolare (si esprime solo in venexian), dice che non vuole sedersi, che deve fare il suo lavoro, e se ne va. Cronache Alfio riprende con le massime: " chi non lavora non fa l'amore"; mentre lo dice, ridendo, balbettando leggermente, mette la mano in posizione e fa il gesto su e giù: è seduto davanti alle suore, le quali ridono amabilmente. Prosegue l'andazzo romantico con "quanta mona che ghe xe aea bienal" ( quanta gnocca c'è alla biennale: citazione colta da una celebre canzone dei pitura freska). E giù risa. Insiste, ormai conquistato il pubblico " l'unica cosa vera dei giornali è la data". Lo ripete più volte, come chi fa una battuta che gli piace. Sorridiamo. Livio dice ad Andrea di essersi fotografato il tatuaggio, e che possiede una digitale, per cui non ha bisogno dell'usa e getta che fa parte del kit con cui dovranno raccogliere il materiale diaristico, come prevede il progetto. Citazioni Wittgenstein dice “ tutto ciò di cui non si può parlare è maglio tacerlo”; “con te partirò”; “so di non sapere”, per cui mi metto nelle condizioni di assorbire ciò che non so, dagli altri; Socrate diceva “c’è chi sa e c’è chi non sa”; “I sofisti sono quelli della televisione”; “la volontà è un’energia che spinge ad agire”; “Socrate non ha mai scritto una riga”, dice un altro per non mettersi a scrivere; “voglio avere la possibilità di non scrivere tutto, di conservare una parte personale di riservatezza”. Glielo diceva anche lo psicologo, ma lui, per le stesse ragioni, non lo faceva; “va bene la comunione, il pane, il vino, ma prima vengo io”; “un bel tacere non fu mai scritto” Setting Come sempre, ad un certo punto, i gruppi numerosi seduti attorno ad un tavolo, si separano formando piccoli sottogruppi. Alla mia sinistra le suore con Camilla, Maurizio e un paio di ospiti; con me Alfio e Livio. Chiedo ad Alfio di spiegare la ragione per cui lui odia i comunisti. Si precipita nel racconto: cresciuto in una famiglia borghese, il padre capo della celere, la madre contessa, gli avevano inculcato che i comunisti sono più o meno merde parassitarie, e a non disdegnare i poveri, ma a denigrare la povertà. Lui riconosce di esserne stato fortemente influenzato, di non essersi mai emancipato da questa tara, che riconosce ingiusta, e tuttavia invasiva. Poi parla del cugino, cui lui ha regalato tutti i suoi libri d’arte, e che adesso è milionario, mentre lui è ospitato dalla caritas. Fa dei gesti espliciti, come chi sa di aver sperperato un patrimonio in agiti poco onorevoli, in vizi costosi; aggiunge che “i gemelli sono idioti geniali”, in riferimento al suo segno zodiacale. Ride beffardo, ride di sé, si riconosce in quella geniale idiozia; ma “idioti come l’idiota di Dostoevskij”. E giù un campionario di descrizioni bignami del maestro e Margherita, di Anna Karenina. E Livio, che racconta la sua storia di anarchico argentino, figlio di immigrato siciliano, scappato in Italia nell’86, dopo aver vissuto la spaventosa inflazione del 76, ma contento di essersi risparmiato quella del 2001. Parla di Borges, di Cortazar, di Bolano, di Che Guevara, di Papa Francesco, del Lumfardo (il dialetto di Buenos Aires, all’inizio di pochi, poi diffuso ovunque), di Alreves (il linguaggio per cui pronunciano le parole al contrario per non farsi capire dai non argentini), e mentre Alfio continua a ripetere che “però lui, mica scemo”, lui risponde appunto che “non è scemo, ma solo un disagiato sociale”. Il tempo passa, le confidenze continuerebbero ad oltranza, ma c’è da andare. Ci si vorrebbe scambiare più cose, più tempo, più parole. Si sa di aver fatto “arte povera”, mentre quella ricca, ufficiale, in mano ai critici, ai galleristi, ai finanzieri, è solo una sorta di troia incomprensibile, a volte affascinante, più spesso irritante e indisponente. "Questi si vestono come dei buffoni, e fuori dal contesto sarebbero scambiati per pagliacci". Forse è vero, forse i segreti della biennale sono anche in questi incontri, in queste utopie che oscillano tra il caricaturale e l’esistenziale, tra i barboni e gli artisti, tra i galleristi e gli artisti che vivono con le pezze al culo pur di incarnare eroi puri, nudi, estetici, estatici. Il progetto prevede che gli ospiti andranno in giro per i padiglioni e fotograferanno e scriveranno cosa pensano dell’arte concettuale avanguardista postmoderna. Sono quasi certo che qualcuno alzerà il dito e dirà che “il re è nudo”, e tutti a farsi una grassa risata. La risata di chi ha vissuto l'impermanenza, la relatività, la disgrazia, le gioia di essere ancora vivi, nonostante. Cristiano Prakash Dorigo

lunedì 21 ottobre 2013

passaggio

Passaggio Il mio corpo sta assumendo un disegno strano, più curvo, rotondo: ora è un sinuoso contenitore smussato, la scatola magica che contiene il mistero biologico della vita. Eppure guardandolo così, come ritorno immediato, me ne sento offesa, disgustata. Non mi piace la figura che vedo allo specchio quando mi guardo: questa è la verità. Perché io debba pagare un prezzo così alto, non mi è dato di saperlo; e niente e nessuno, comunque, potrebbe convincermi che un ritorno alla normalità in pochi mesi, sia una promessa che compenserà questo disagio, questo degrado. Il mio posto nel mondo, il mio ruolo, quello che sono certa di rappresentare, sono compromessi da un’estetica sconveniente e sproporzionata; le mie già precarie sicurezze, conquistate in anni di fatica, di studio, sono minate, da dentro, da una percezione contorsionista che fa le capriole, che mi fa perdere e ritrovare, direzione e padronanza. Ho letto molto e so che posso avere degli scompensi, alti e bassi, che non sono altro che il risultato di impulsi elettrici, reazioni chimiche, battaglie ormonali, lotte psicologiche. Sono un laboratorio; un grosso tondo laboratorio che girovaga senza agilità per un mondo che osserva e giudica. Chilogrammi, taglie elefantiache di mutande e reggiseni, vestiti larghi a caduta perpendicolare, mutazioni e trasformazioni. Leggo i pensieri degli altri e vedo scritte parole sarcastiche quando pensano a me. Lo so sì, lo so da me che sembro un pallone con testa-braccia-gambe. Eppure tutto questo svanisce con un calcio, un impercettibile movimento, un cambiamento di posizione. Tu, immersa nel liquido, nel silenzio reale e irreale del misterioso mondo sferiforme, galleggi, circoli liberamente, fai piroette circensi. Mi pare che te la spassi, e sento una sorta di gelosia mista a contentezza, per questo. Il tuo pubblico siamo io e te; solo io e te. E per uno strano sentimento di sufficienza, tu ed io, siamo tutto ciò che desideriamo; siamo un piccolo mondo, ma mai vorremmo che qualcuno venisse a curiosare tra i nostri segreti, che venisse a farci domande cui mai risponderemmo, in quanto sono solo affari nostri. Nella situazione complessa in cui ci troviamo, regna la semplicità e governa la delicata legge della natura e dell’istinto. Io mangio, tu mangi. Io rido, tu godi l’allegria. Io piango, tu scimmiotti rattristandoti. Non sono mai sola così; non posso nascondere segreti segreti; tu in qualche modo sai, senza sentire: il contatto diretto ci unisce, il cordone è un megafono. Mi ritrovo sempre innanzi a salite e discese, alti e bassi, precipitosi cambi d’umore, repentini, improvvisi, temporali e tuoni e fulmini e ventate fresche nel caldo d’estate. Non c’è mai una stabilità stabile: soltanto le mille piccole instabilità che senza volerlo, mi causi; che hanno una strana forma di disciplina, un equilibrio da tiro alla fune. E il mio corpo è sempre un segnale da codificare, un’attività perpetua, composta di scatti, frammentata, disordinata ma viva, saporosa, odorosa, vitale. Quando mi fai stancare tanto, la schiena mi duole, i piedi come braci, il sudore che bagna la pelle. Non riesco a razionalizzare il sentimento. So a malapena collocarlo nel delicatissimo disegno universale, che si autoalimenta, che basta a se stesso e che provvede al mantenimento delle specie. E credo questo ci preparerà al dopo. Ci sono gli alti e i bassi, e occorrono forza e gioia per introiettare le contraddizioni della vita. Noi ci stiamo allenando insieme a separarci; a passare dalla beatitudine dell’unità, al lutto della separazione; dall’eliminazione della dualità, al dispiacere di sentirci vicini ma pur sempre lontani rispetto al prima: al nostro adesso. A me spetta il dolore del corpo dilatato, che espelle una parte di sé che diverrà un’altra esistenza che non sono più io, ma tu. Ore a lavorare sodo, a respirare con ordine, col diaframma; lenta, su e giù, pancia in fuori inspiro, pancia in dentro espiro. E sarò maschera di sudore, bocca spalancata che urla, forte, come a sputare il dolore; forte, fortissimo, insopportabile: AHAHAHAHAHAHCHEMALECHEFA!!! E avrò mani vicine da stringere con forza, che mi sosterranno, ma che non sapranno mai il nostro dolore, la nostra forza potente, importante, durissima perché fragile e sensibile. E tu dovrai lavorare, spingere, comprendere quando è il momento. Sarai ancora in contatto con me, ma saranno le ultime volte prima di affrontare lo scivolo delle viscere e terminare il viaggio, che inizierà proprio allora. Contemporaneamente uscirai ed entrerai; dal mondo perfetto a quello imperfetto. Dal silenzio magnifico della felicità assoluta, al frastuono, alle luci. E piangerai perché non saprai perché; non subito almeno. Poi passerai da mani che non conosci, che fanno paura ad un posto morbido; riconoscerai un odore acre mai sentito ma familiare, una voce mai udita con quelle tonalità, ma dolce. Piangerai con forza, con totalità; ma quella voce, quella sofficità, quel profumo ti calmeranno. Per la prima volta sarai nel momento, nel punto esatto, dove qualcosa finisce per ricominciare subito dopo, in altro modo: tutto da imparare, capire, tradurre. Adesso, se appoggio le mani sulla curva rotonda della pancia, sento un piede e riconosco la tua risposta. Questi pensieri non erano solo miei; li hai indotti tu con la tua ingombrante presenza, con l’alfabeto del tuo movimento, con la danza acquatica che mi disegni dentro. So che arriveremo alla fine esausti, ma resisteremo e trasformeremo la nostra unione in qualcosa di nuovo, forte, complice. In questo continuo rutilante miscuglio di emozioni sonore come schiaffi, fragorose come il silenzio assoluto, si aprono dei piccoli varchi e io, in quei piccolissimi pertugi, posso depositare amore; amore materno, amore senza ragioni, perché uscito vivo da lotte leggendarie e leggi universali. L’altro giorno ho visto la tua prima fotografia in bianco e nero. Nel monitor, come in un film, ti muovevi senza fretta, con grazia. Ti sei mostrata nuda e libera e fluttuante. E ho anche sentito il tuo primo suono: un galoppare frenetico, un tambureggiare tribale; il tuo cuore echeggiava nel mio mare, la tua casa, la mia pancia. Dopo un po’, non subito, ho continuato a sentirti, a percepire il tuo linguaggio delicato e ho sentito una stretta fortissima al cuore, una morsa d’acciaio, improvvisa e ho capito che per sempre saremmo stati legati, pur nella nostra unicità, avremmo condiviso per sempre un legame che è semplice e vitale e assolutamente involontario; è un marchio a fuoco che non abbiamo deciso, ma che abbiamo ereditato. Ora non resta che aspettare che si compia il meccanismo naturale. Uscirai da me, ma non preoccupartene: sarò lì ad accoglierti e stringerti. E ti nutrirò e rassicurerò. Sarò sempre con te fino a quando servirà, poi spero di riuscire a lasciarti andare. E un giorno ti leggerò queste righe e insieme ne sapremo ridere, con spensieratezza e leggerezza. Ti aspetto. Buon viaggio.

domenica 20 ottobre 2013

libro elettronico

Il mio ultimo libro è diventato elettronico. Io non so quasi cosa sia l’elettronica, come funzioni, quali siano i suoi segreti e meccanismi, pur facendone un grande uso, come tutti. So invece cosa significa scrivere un libro: conosco la fatica, l’estasi, la frustrazione, la soddisfazione, i ripensamenti, la nausea che ad un certo punto le tue parole ti provocano, quando diventano solo una questione grammaticale, di correzioni, refusi, punteggiatura, e quasi smarrisce il senso unitario, perdendosi nel particolare. L’ho scritto del resto utilizzando il computer e altri mezzi elettronici, cui mi sono definitivamente arreso; a tal punto da non riuscire quasi più a farlo con carta e penna: le mie dita rispondono, a livello neurologico, dinamico, prassico, alla tastiera. L’altro giorno parlavo con un amico che ne sa, e mi diceva che in Italia le vendite di ebook sono ancora agli inizi. Poco male, pensavo: in fin dei conti qui non si tratta di numeri, ma di qualcosa di ben più personale: si tratta di ego, di immortalità, di internet. Si tratta di non uscire mai dai cataloghi, di non dipendere dalle pile nelle librerie, pagate a peso d’oro. Si tratta della trasformazione tecnologica delle idee. Insomma, poche righe sul mio blog me le potrò pure concedere per rendere pubblica una sensazione privata, intima. Quella del confronto, eterno, irrisolto, misterioso, della produzione di parole, tra un emittente e un ricevente, che potenzialmente diventa internazionale e accessibile a chiunque, ovunque sia. Quella per cui l'incognita è la costante. Quella della relazione tra autore e lettore.

giovedì 17 ottobre 2013

Sono morte settantatré persone

Era l'estate del 2009 e 5 eritrei raccontavano di altri 73 passeggeri morti e abbandonati in mare. Avevano incrociato molte imbarcazioni, tutte però indifferenti al loro evidente stato di disperazione. Si parla di precise responsabilità politiche, dimenticando quelle umane. Sono morte settantatré persone nell’indifferenza di tutti. Sono morte settantatré persone come fosse il baratto di una disputa incivile. Sono morte settantatré persone e si cerca il più colpevole. Sono morte settantatré persone e per solidarietà hanno tolto il gioco da internet grazie al quale si potevano passare dei momenti lieti in compagnia, cacciando gli immigrati che stavano per raggiungere le coste dell’Italia: che sensibilità, che gesto di civiltà. Sono morte settantatré persone di cui nessuno avrà memoria, se non nei dibattiti idioti in tivù nei quali qualcuno rinfaccia qualcosa a qualcun altro. Sono morte settantatré persone di sete e di fame, in mezzo al mare, senza alcun aiuto in quanto ci sono giochi ben più importanti in ballo: territorialità, confini, misure, ideologie, dispute economiche. Sono morte settantatré persone preghiamo dio che li accolga anche perché qui noi siamo già strettini... e forse stan meglio là. Sono morte settantatré persone che in effetti in tempi di crisi... a dire il vero.. rischiavamo di non poter offrire loro un’adeguata sistemazione, un lavoro decente, un decoroso benvenuto. Sono morte settantatré persone durante il periodo di saldi e me ne ricordo bene perché l’hanno detto alla radio proprio mentre stavo pagando le scarpe e il mio bancomat non funzionava: che figura di cacca! Sono morte settantatré persone provenienti dall’Africa, da un ex colonia dell’impero fascista, cui hanno dedicato la canzone della faccia abbronzata Sono morte settantatré persone e molti hanno davvero assunto nei loro volti una smorfia di dolore sincero e sentito in profondità, proprio mentre a cena stavano masticando e roba che addirittura gli va il boccone per traverso. Sono morte settantatré persone e il prete domenica ci ha chiesto di pregare per loro in quanto si spera che vengano accolti nel regno dei cieli. Sono morte settantatré persone e ho visto i colpevoli dare la colpa ad altri colpevoli dimostrando che ci sono molti colpevoli, ma che sono sempre gli altri. Sono morte settantatré persone e gli scrittori dovrebbero scriverne senza lasciare ai soli preti il monopolio della critica della schifosa realtà che ci vede impegnati dall’estetista mentre questi muoiono porco ... Sono morte settantatré persone di cui non frega niente a nessuno e anch’io che ne scrivo mi sto chiedendo perché sono così impressionato da questi settantatré nessuno. Sono morte settantatré persone ed è pur vero che ogni giorno ne muoiono migliaia e quindi in proporzione nella barbarie e indifferenza generali questi occupano una piccola percentuale insignificante. Sono morte settantatré persone e la politica dov'è, cosa dice, cosa fa? Sono morte settantatré persone e davvero non capisco niente se non che non c’è niente da capire perché capire sarebbe la condanna dell’innocenza. Sono morte settantatré persone e mi rendo conto di essere una persona pesante perché vorrei dirlo e ripeterlo che sono morte settantatre persone. Sono morte settantatré persone e adesso i loro corpi saranno putrefatti e smangiati dal salso e gonfi d’acqua e divorati da pesci di ogni razza e misura. Sono morte settantatré persone e il pianeta sovrappopolato, volendo vedere le cose al positivo, non ne soffrirà. Sono morte settantatré persone e allora? Sono morte settantatré persone e quando si sono imbarcati se vogliamo dirla tutta lo sapevano che correvano dei rischi. Sono morte settantatré persone e io no. Sono morte settantatré persone che potevano rimanere qui come rifugiati politici in quanto lì da loro c’è la guerra e qui no; chissà perché là sì e qua no… ma non dico altro che poi si dice che son razzista … ma lasciam perdere Sono morte settantatré persone e la mia fragilità m’impone di sapere per colpa di chi pur sapendo che anch’io sono parte in causa: io sono co-colpevole. Sono morte settantatré persone di cui non so nulla per cui posso dormire in pace. Sono morte settantatré persone la cui vita si è spenta ma almeno hanno rifocillato pesci che hanno risolto l’annoso problema del pasto. Sono morte settantatré persone che hanno avuto fiducia in altre persone che hanno girato lo sguardo altrove, verso il mare, verso la preghiera del ritorno a casa, verso dove non si vedeva la viltà dei miserabili. Sono morte settantatré persone di cui forse qualcuno piangerà, ma è così lontano che non si sente niente. Sono morte settantatré persone e io so, c’ero, ho visto tutto, e potrei rivelare quel che so a chi non sa, ma non ne ho le prove.

lunedì 14 ottobre 2013

naufragi

Passati i giorni della commedia del lutto, posso finalmente scrivere come mi sono sentito sapendo della morte degli immigrati. Avevo bisogno di un distacco, pur sapendo che non finirà mai. Sarò breve, ma devo partire da lontano. Quando ero giovane faceva figo sentirsi internazionalisti, cittadini del mondo. Anch’io ne subivo il fascino, e nonostante mi sia allontanato molto dalle robe che facevano figo allora, in alcuni casi, come questo, sono tornato all’origine. In termini spirituali e razionali, e perciò anche politici, credo che la divisione del mondo in tante piccole frazioni, che cambiano del resto ad ogni guerra, sia una perversione squisitamente umana, senza per altro niente di squisito. Credo che pensare ad un mondo liscio, senza fratture, senza nazionalismi, sarebbe un problema solo per la finanza, i fascistoidi, le chiese, la politica: ragion per cui non si farà mai, e me ne rendo ben conto. Detto questo, passo alla ragione di questo mio. Non ho voglia di fare ricami o giri di parole: quelle immagini mi hanno sgomentato, tormentato, addolorato, ferito, annichilito. Mi è insopportabile l’idea che si possa lasciar morire così degli esseri umani, e riservare a chi sopravvive un trattamento peggiore di quanto noi, gentili anime occidentali, riserviamo agli animali. Non voglio fare il puro, l’ingenuo, quello che finge di non conoscere le regole del mondo; le conosco, e bene, e appunto le sto rimettendo in discussione. Volevo scriverne in quei giorni, ma sarei stato probabilmente solo sentimentale, col rischio di venir tacciato di buonismo, sentimentalismo, sinistrismo. Ma non si tratta di questo: non è solo il sentimento, l’emozione; no, è pura razionalità, la mia, per il poco che conta. Ho sputato contro lo schermo quando Alfano ha parlato di Europa invece di tacere e magari piangere; ho inveito contro Letta e il governo quando ha fatto e detto quello che ha fatto e detto, senza poi dire e fare niente; ho distrutto il computer quando ho letto il post di quel mentecatto di Grillo, che ha ridotto una questione profondamente umana in un banale conteggio elettorale - ma forse non le possiedono, nessuno di questi, le parole da dire, scrivere, e soprattutto tacere, quando andrebbero dette, scritte e taciute -. C’è chi crede di sapere la verità, chi si illude di avere soluzioni, chi vende pacchetti ideologici per mentecatti, chi si aggrappa alla fede, chi spara le inevitabili contraddizioni aritmetiche. Non possiedo formule salvifiche, non ho idee geniali, e tanto meno certezze universali. So solo, questo sì, che fino a quando sento il dolore che ho sentito, mi asciugo gli occhi delle poche lacrime che ancora possiedo, leggo le trappole ideologiche che cercano di conquistare chi non vede l’ora di farsene conquistare perché non sopporta lo sgomento che prova, io sono me, e mi posso fidare dell’autenticità di tale fiducia. Prevedo che non finirà mai, e spero di stare male ogni volta che ne ho lucida consapevolezza. Cristiano Prakash Dorigo

venerdì 11 ottobre 2013

Piccoli maestri Venezia

PICCOLI MAESTRI A VENEZIA Una scuola di lettura per ragazzi e ragazze, in laguna e dintorni Una proposta del GRUPPO SCUOLE nato da “VENEZIA CITTÀ DI LETTORI” Esattamente sei mesi fa, il 12 aprile 2013, gli autori veneziani (scrittori e illustratori) si sono mobilitati per dare un sostegno alle librerie cittadine, che da alcuni anni sono in pesante difficoltà: molte hanno chiuso e altre rischiano di cessare la loro attività. Tra le diverse iniziative che sono derivate da quel primo incontro alla Biblioteca Nazionale Marciana, una si rivolge alle scuole, primarie, medie e superiori, agli insegnanti ma soprattutto agli studenti. Si tratta di portare anche a Venezia un’attività ideata da Elena Stancanelli e già sperimentata a Roma con buon successo: la scuola di lettura per ragazzi “Piccoli maestri”. L’idea è di offrire agli studenti la possibilità di avvicinarsi a un libro, classico o no, una gemma del passato o del presente, con la guida di qualcuno che lo ha molto amato e che lo porta in una classe, ne legge dei brani, comincia a raccontarlo, incuriosendo i ragazzi, instillando in loro il desiderio di continuare da soli, anche per vedere come va a finire. Nessuna conferenza, nessun compito da svolgere a casa: solo un incontro insieme a chi lavora con le storie, per farsene affascinare. Lo scopo è di lasciare i ragazzi con l’acquolina in bocca, la voglia di andare a cercare quel libro, di leggerlo. Gli autori che hanno aderito a questo progetto, per ora in via di sperimentazione nel Comune di Venezia, parteciperanno a titolo gratuito, mettendo a disposizione un poco del loro tempo e tutta la loro passione per i libri e la lettura. Ognuno di loro potrà gestire, nell’anno scolastico, due o tre incontri (un solo incontro per ciascuna scuola, in due o tre scuole diverse), nei tempi concordati con gli insegnati che vorranno avvalersi di questa opportunità e offrirla a una delle loro classi. Gli incontri si svolgeranno in orario curricolare, durante le lezioni, per una classe alla volta, in modo da favorire l’interazione con i ragazzi. Alle scuole primarie, medie e superiori del Comune di Venezia è stato inviato, dall’Ufficio scolastico territoriale di Venezia che ha offerto la sua collaborazione, il “catalogo” dei libri tra cui scegliere: gli insegnati interessati potranno concordare la data e le modalità dell’incontro attraverso quel contatto, o direttamente sul blog che presenta l’iniziativa. Le prime richieste sono già arrivate. Per meglio spiegare cosa sia “Piccoli maestri”, vi invitiamo a visitare la pagina web: http://piccolimaestri.wordpress.com/ sarà tutto chiarissimo. Da oggi 12 ottobre sarà attivo anche il blog autonomo dell’iniziativa, http://piccolimaestrivenezia.wordpress.com. Questi gli autori (fino ad ora 26) che hanno aderito al progetto: Antonella Barina, Paola Brolati, Annalisa Bruni, Davide Busato, Dario Cestaro, Marco De Rosa, Maurizio Crema, Cristiano Prakash Dorigo, Alberto Fiorin, Carla Forcolin, Paolo Ganz, Marina Gasparini Lagrange, Federico Moro, Massimiliano Nuzzolo, Edoardo Pittalis, Tiziana Plebani, Gianluca Prestigiacomo, Tiziano Scarpa, Lucio Schiavon, Paola Scibilia, Sally Spector, Elisabetta Tiveron, Anna Toscano, Alberto Toso Fei, Fabio Visintin, Paola Zoffoli. Informazioni: Marina Nostran, Ufficio scolastico territoriale di Venezia: marina.nostran@istruzionevenezia.it Annalisa Bruni, coordinatrice “Gruppo scuola”: piccoli.maestrive@gmail.com

martedì 8 ottobre 2013

immigrato a

immigrato a

A è partito dalla Tanzania, dove suo padre abita ancora a Das er Salam.
Un giorno è uscito di casa, ha percorso la strada polverosa, e non è più tornato ( in verità lo ha fatto molti anni dopo; ma ci arriviamo ).
Ad un’età che qui è considerata  da “ preadolescente ”, ha attraversato diversi stati, fino al Sudafrica.
Qui conosce la violenza delle bande dei neri.
Racconta che per salutarsi si fanno il gesto della pistola col pollice, indice, medio: e quella non manca mai, così come le risse e le morti violente; sparano sul serio, e non con le dita. Rischia di morire, e solo casualmente ce la fa: vivere o morire, è solo un caso: metà e metà, può andar bene, come no. Ha visto molti morti, sparati, a tal punto che là diventa abitudine.
Trova uno che come lui se ne vuole andare da quell’inferno. Raggiungono il porto, si intrufolano nella stiva di una nave, si nascondono tra la merce.
Sperano di raggiungere l’Australia, come già aveva fatto suo fratello, che ormai là si era stabilito, e che era partito alla sua stessa età.
Resistono tre giorni, e poi cedono alla fame e alla sete.
Escono luridi: sono sporchi, prostrati, stanchi. Vengono accolti dall’equipaggio che li nutre e li tratta bene; come si fa coi bambini, che in effetti loro sono.
Il più simpatico, racconta, era il cuoco filippino: una checca, che parlava come una donna, una specie di mamma buona.
Nel Mediterraneo toccano diversi porti, fino all’approdo di Venezia.
Al porto si consegna alle autorità che mettono in moto l’iter per i minori stranieri non accompagnati. Va in comunità educativa, studia in un istituto professionale, si diploma elettricista, lavora, si mette insieme ad una ragazza del posto, fanno un figlio, torna a trovare il padre, perde il lavoro, ne trova un altro e vive.
Ogni tanto piangeva sua madre con infinita malinconia. A volte rideva come solo gli africani sanno fare: di niente, per niente, per beffarsi della vita così amara.
E’ probabile sogni ancora l’Australia così come sognava una vita migliore.
Qui la vita è migliore di là, in Africa.
Si hanno più cose, ci sono più possibilità.
Se lo vedo per strada, e lui non mi vede, mi capita a volte di guardarlo a distanza.
E mi chiedo se la sua espressione è quella del sogno smarrito.

mercoledì 2 ottobre 2013

smettere di fumare




Questa giornata è una bella giornata e io devo pigliare quel che viene con la grazia di chi non giudica, ma accoglie e sorride.
Sembra oramai un mantra, questo. Ma perché non dovrei accettare i consigli del terapeuta? Una formula salvifica, è positività; ci metterà del tempo ma crescerà e lascerà un segno inciso nell’animo.
Quest’altro consiglio non lo so accettare e alla mattina, appena alzata, mi prendo solo un caffè,  nero e dolce, e fanculo.
Dovrei passare ai cereali e alle fette biscottate integrali con la marmellata biologica e il tè verde.
Dovrei ma non c’entra.
Quello che dovrei è una costruzione artificiale e irraggiungibile di buoni propositi e adempimenti e fioretti e rotture di palle.
E quelli che ti dicono quello che dovresti sono di solito infelici anche se lo nascondono dietro quei sorrisi e quei modi così a posto che ti verrebbe voglia di prenderli a schiaffi.

Poi subito la sigaretta, tanto per far andar via quell’oppressione ai polmoni che schiaccia col vigore d’una pressa.
La prima cicca è una delle cose belle della mia vita: tiro forte, tirate luuunghee, che occupano immediatamente tutte le distonie dei polmoni che si lamentano.

Onomatopee della prima: Sssssssss  (aspiro),  ffffffffff  (butto fuori).
E poi la pace, l’ansia che si placa e ridiscende dentro fino a diventare lontano ricordo che ogni tanto ricompare.
Non è molto elegante, ma lo dico lo stesso, tanto mica va su un giornale rosa sta specie di diario a pezzi: la sigaretta me la fumo in bagno, mentre faccio i bisogni.
E tanto per dirla tutta, ma proprio tutta, è la più grande liberazione sfinterica che si possa immaginare, e io me la godo tutta tutta, prima di ridiventare un essere con sembianze umane.
E’ il vantaggio di abitare in campagna, con le case ancora grandi che hanno almeno tre bagni. E questo è solo mio.
Mia madre e mia sorella ne hanno anche loro uno ciascuna; e così ci posso fare quello che voglio qua dentro.
Il bagno è mio e lo gestisco io.

Finalmente riconquisto la libertà dopo anni di sacrificio; mi sono tenuta dentro tutto, tutto soffocato là sotto, perfino a cagare ci andavo quando ero sicura che non c’era nessuno in casa; per paura di far rumori molesti, o puzza.
La femminilità si misura ancora oggi secondo canoni onomatopeici secolari: la donna dev'essere silenziosa, discreta, efficiente, ubbidiente. Certo, come no; mal di pancia, mal di piedi, schiena, testa: chi bella vuol apparire, in silenzio deve soffrire.
Proprio pensieri da cesso mi vengono alla mattina, altro che bella giornata.
C’è questa rabbia che esplode così senza preavviso e che mi impone pensieri che non vorrei pensare e mi fa dire, nel silenzio di questi, parole che mai vorrei udire da alcuno; specialmente da me stessa.
Ma poi passano; “è forse la tazza che evoca il piacere anale che ritorna con la sua semplicità, complicata ad arte dalla morale e dalla cultura occidentale”.
Ma che bei pensierini da convegno che mi vengono mentre me ne sto qua seduta, con sta cicca fumante tra le dita, mentre faccio tiri lunghi, potenti, che mi riempiono e quietano.

Finito! Adesso via sotto la doccia.
“Sono un corpo umido d’acqua e vapore/sono nascosta dentro a questa nebbia/mi vedi e non mi vedi/ ci sono o forse no/sono solo un sogno/ che si rivela un poco/ per suscitare domande/ per scaturire risposte”.
C’è chi canta, in doccia; io no, m’immagino d’essere una che scrive canzoni, o poesie, e a seconda di chi me la commissiona, scelgo un particolare stile.
E anche perché ho sempre freddo e questo comporre canzoni e versi mi distrae dalla temperatura che mi penetra la pelle e arriva fino alle ossa e poi ancora oltre, ad allarmare le interiora.

Terminata la doccia inizia il supplizio: devo decidere cosa mettermi addosso; ed è una logorante guerra quotidiana, una di quelle cose che, in certe giornate, mi spossano ancor prima d’uscire.
Oggi non dovrei avere riunioni quindi una qualsiasi cosa dovrebbe andar bene, a patto che sia almeno decente.
Che poi lo so che non sono gli uomini che s’accorgono come mi vesto o se tutto è intonato, ma quelle mezze vacche delle mie colleghe; le regine del brusio, le star del chiacchiericcio.
Va bene, decido per il blu, che tutti mi dicono mi sta bene e basta.
Questi jeans mi stanno proprio bene, con quello che son costati, ci mancherebbe; e poi sono di moda e coordinati con i gemelli blu scuro sono a posto.
Adoro sentire questa lana pregiata sulla pelle, passarci le mani sopra facendo finta di sistemarmi, ma in realtà soltanto per posarci le mie mani sopra e affondare sul morbido.
Un trucco leggero e una spazzolata ai capelli che speriamo resistano fino a sabato che ho appuntamento dal parrucchiere.

Prima di uscire devo dare un’occhiata all’agenda e fare il punto della situazione; l’altro giorno Gianluca e Susi m’hanno invitato al cinema con tutta la compagnia e io, come una scema, a dire sì, sì; con una faccia che si vedeva lontano un chilometro che non ho mai niente di bello da fare, solo impegni, e corsi, e palestra, e teatro, e basta.
Il teatro, un posto e un tempo per provare emozioni vere, per farmi uscire da questa monotonia, da questo appiattimento cui assisto come fossi sempre a teatro; spettatrice al di qua del proscenio della mia vita: uno spettacolo scadente, con pochi applausi di un pubblico immaginario feticista e vagamente depresso.

E insomma quella sera dovevo andare al cinema e poi, magari, a fare tutti insieme un bello strip poker: io che perdevo apposta e davanti a tutti, un pezzo alla volta, togliere con la finta calma pacchiana delle spogliarelliste, gli indumenti.
E sentire che quelli che mi guardano si eccitano, gli si gonfiano i pantaloni.
E le donnine gelose, perché sentono quest’elettricità che investe tutti.
E invece sono uscita e ho visto il film senza perdere una scena. Ho anche pianto verso la fine, e con una scusa sono dovuta andare in bagno a truccarmi di nuovo. Poi come al solito, casualmente, tutti se ne vanno e io rimango col fesso di turno che ci prova. 

-“La fortuna di essere femmina, di poter scegliere chi voglio quando ne ho voglia”
-“Ma la mia voglia ha una qualità diversa, e sorge solo se sono desiderata”
-“Non so come fate, ma quando volete, inducete il desiderio in noi maschi”
-“Sono solo parole e pensieri tipicamente maschili. La realtà è molto più complicata e difficile”
-“La realtà è la rappresentazione che noi diamo della nostra soggettiva visione delle cose”
-“Certo, hai proprio ragione. Senti, sono un po’ stanca, ti spiacerebbe riaccompagnarmi al parcheggio della pizzeria che prendo la macchina e torno a casa?”
-“veramente speravo riuscissimo a stare un po’ insieme stasera”
-“anch’io, ma non mi sento tanto bene. Scusa”

Mentre raggiungo la macchina per andare al lavoro, penso che ormai ho superato i quaranta, che i miei sogni stanno diventando materiale effimero fuori moda, che se non mi muovo non diventerò mai madre, che continuerò a vivere con mia sorella e mia madre, che il calore e l’amore di cui penso di aver bisogno, li leggerò sui romanzi.
E che magari adottando un figlio smetterò di fumare.
Nel frattempo mi accendo una cicca.