domenica 14 luglio 2013

2666

questo breve testo l’ho scritto per omaggiare un’iniziativa pensata da Cletus: si trattava di una serata in onore di Roberto Bolano, a dieci anni dalla sua scomparsa. La serata si svolgeva a Roma, il giorno stesso in cui tornavo dalle vacanze, alla quale non ho perciò potuto partecipare. L’ho scritto in due momenti distinti tra loro.
L’inizio, metà circa, mentre ero ancora in vacanza; la seconda metà  a casa.
Lo invierò comunque a Cletus e lo pubblicherò sul mio blog: ormai è scritto.
Pensavo che un altro autore che ho particolarmente amato, Giorgio Gaber, è morto da dieci anni. E nel frattempo, in questi giorni, è scomparso un’altra persona, uno scrittore ( professore, filosofo, musicista, padre e marito) che ho avuto modo di conoscere in rete, con cui ho scambiato parole, e forse anche alcune verità: Valter Binaghi.
Non so se sia lecito, se sia giusto, dire che mi sento un po’ più solo, in riferimento a persone che non  ho conosciuto fisicamente, ma solo attraverso le parole.
Ma credo di potermi fidare di quello che sento, e questo accenno di solitudine, è ciò che sento.
Caro Cletus,
purtroppo non sarò fisicamente presente.
Per l’ora prevista, proprio quel giorno, finiscono le mie ferie in Salento, e prevedo di essere arrivato da qualche ora a Mestre - terraferma veneziana -, quando l’evento inizia. Confesso di dispiacermene: fossi stato da solo in auto, mi sarei sicuramente fermato e avrei festeggiato.
E perché?
Perché avrei bisogno di condividere, di sapere, di capire perché, questo scrittore, questo amico immaginario, quest’uomo che fu, mi piace tanto.
Già, non lo so, e mi piacerebbe che qualcuno mi aiutasse; me ne sarei stato in ascolto, avrei cercato di cogliere qualche parola intelligente o commossa; qualunque cosa che mi consentisse di capirmi.

Il mio personale esordio con Bolano non è stato entusiasmante: ho iniziato a conoscerlo con “ i detective selvaggi”, e non me ne sono innamorato. Quel romanzo non mi aveva stregato: non abbastanza almeno, da indurmi a non dubitare di lui, ad abbandonarmici e precipitare dentro le sue storie, dentro il suo mondo di infinite digressioni, dentro la sua stessa passione per la lettura, che l’ha indotto a scrivere, e quindi a concludere il processo comunicativo; scrivendo a sua volta, consentendoci di leggerlo.
Poi sono passato attraverso l’ultimo capolavoro moderno che mi è capitato di leggere: 2666.
Non è stato semplice affrontarlo, sciogliermici, aderirvi, perdermici: le prime pagine non sono un invito esplicito a quello che succederà in seguito. Ricordo le mie numerose letture dei mistici, laddove il cammino verso il risveglio, è descritto come insidioso, faticoso, pieno di tranelli, ripensamenti, tradimenti, abbandoni.

Ricordo che avevo da poco concluso un altro bel tomo: Shantaram.
Un libro che lascia il segno, che rimpiangi di aver concluso; non certo un capolavoro di letteratura, ma un’avventura totale sì: un viaggio in India - e non solo - come non ne leggevo da un pezzo. Quando finisco romanzi così belli, so che l’unica consolazione è un classico; un libro che sai non ti deluderà, che ti aiuterà a tornare alle faccende quotidiane con la generosità di cui necessitiamo per non morire di noia.
Ricordo che ero andato in libreria a Venezia, che avevo preso la prima parte - Adelphi all’inizio aveva fatto questa scelta commerciale - dopo il classico - non mi si chieda quale: forse “Anna Karenina” ? - che mi aveva costretto a chiedermi se vale ancora la pena di scrivere, dopo Tolstoj.

Ecco un punto nodale: quando leggo libri fondamentali - non so come altro definirli -, mi chiedo sempre se abbia ancora senso, per me, ma non solo, continuare a scrivere. Certi libri contengono tutto, e lo esprimono in modo assoluto: non si potrà che scrivere, peggio, quello che è già stato scritto.
Con Bolano, invece, mi succede il contrario: mi viene la voglia di compiere l’atto della scrittura, di prendere le parole che mi girano dentro e di raccontarle; fosse anche soltanto perché, appunto,  mi sento di farlo ( cito Carver, altro scrittore che mi regala questo:  “ ...Ed era semplicemente meraviglioso scriverle: non c’era niente di più bello. E lo facevo perché ne avevo voglia, che mi sembra la migliore ragione possibile per fare una cosa ...“ ).

I suoi libri, il suo stile, sono per me un mistero.
Ho spesso sostenuto, e lo credo tuttora, di non essere capace di recensire libri; fatico anche a raccontarli, a spiegare le ragioni per cui un testo mi piace o non mi piace. Devo però confessare in tutta onestà, che credo di saper distinguere quando un testo è un buon testo, e quando non lo è.
Questo vale per me, per il mio modo di percepirne il senso, la forma, la necessità.
Leggo con continuità e piacere, e col tempo credo di aver affinato la capacità di cogliere le stratificazioni, che sono presenti in tutti i testi.
Leggere 2666, è stato un continuo scoprire un livello dopo l’altro, una storia dietro l’altra: ho avuto l’impressione vertiginosa che quel libro potesse non finire mai, non smettere mai di raccontare, che fosse un abisso vorticoso e potenzialmente infinito.

Mi sono anche chiesto, scrivendo questo breve testo, se non si trattasse di una sorta di transfert, di un’attrazione derivante dalla vita dell’autore: sono molto affascinato dall’idea di uno scrittore che ha fatto mille lavori, che ha vissuto molto, che si è fatto da sé senza l’ausilio di accademie, amici, conoscenti. Uno che ha scritto e letto più che poteva, che ha  in tal senso abitato molte esistenze.
Non lo so: davvero. Quello che so, è che mi ha reso felice e grato di averlo letto.
Quest’estate lo rileggerò, e se capirò qualcosa di più, lo scriverò.

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