domenica 30 giugno 2013

vacanze: riposare, leggere, scrivere

Quest’anno riesco a fare un po’ di vacanze.
Starò via un paio di settimane, e spero di:
riposare
leggere
scrivere

Per il riposo si vedrà, non è mai sufficiente a compensare le fatiche. Talvolta mi chiedo perché la vita dell’uomo sia così caratterizzata dalla fatica, intesa in ogni suo significato: mi rispondo che non lo so, e che a me capita di essere stanco, sì; ma anche di non esserlo, e di sentirmi soddisfatto per i pochi istanti di brevi estasi che accadono, tra una lamentazione e l’altra. Non so se sia una capacità di pochi, se agli altri non succeda, se non riescano a cogliere quei brevi tratti in cui tutto è come dev’essere; a me capita, e compensa ogni fatica.

Per la lettura, molte pretese e chissà, se riuscirò a leggere metà di quello che avrei voluto. Portati i seguenti libri:
Zadie Smith e Carver: due libretti sulla scrittura;
Genna: fine impero;
Bolano: rilettura 2666 ( dovrei “studiarlo”);
Bulgakov: rilettura del maestro e Margherita ( dovrei “studiarlo”).

Per la scrittura, molte pretese e chissà se riuscirò a scrivere metà di quello che avrei voluto. Probabilmente nemmeno un decimo, ma non ho scadenze, né contratti da rispettare. Mi basterebbe, come dice la Smith, “scrivere per costruire questa frase: per renderla più bella che posso, questa qui e anche la successiva. E’ un antidoto all’inutilità”.
Alla domanda “perché scrivere”, in quest’alba estiva del 2013 la prima immediata e spontanea risposta che mi viene, è “perché mi piace” ( e questo vale anche per la lettura).

Ci risentiamo dopo metà luglio.

giovedì 27 giugno 2013

biennale e refusi


Spettabile Dottor Baratta,
in questi giorni ho visitato in ordine sparso alcuni padiglioni della Biennale. Confesso di essere rimasto piuttosto deluso da molti di questi; alcuni mi sono piaciuti, ma pochi. La biennale rimane comunque un evento da non perdere, di cui usufruire, con cui confrontarsi.
C’è un particolare che mi ha colpito più di altri, che le volevo segnalare, che è strettamente collegato alla considerazione che il nostro paese riserva alla cultura, a come la decadenza abbia ormai pervaso ogni aspetto, dal minimale al grossolano, rischiando di dilapidare per pigrizia, ignoranza, trascuratezza, la propria ricchezza: mi riferisco ai cartelloni che descrivono le opere.
Quello che scrivo è paradossale e sintomatico: non le discariche accanto alle aree protette, non lo sgretolamento di Pompei; no: proprio le scritte, la grammatica, la traduzione, la non cura, la disattenzione.
Mi sono accorto in più occasioni - e temo me ne siano sfuggite altrettante - che la traduzione di certe frasi sembrava fatta coi traduttori automatici che si trovano in rete; e refusi, errori grossolani, in quei manifesti di carta pregiata, sporcati così, quasi casualmente.
Mi chiedo perché, se non sia possibile averne maggior cura, se non basterebbe uno sforzo neanche tanto faticoso, per essere all’altezza del progetto “Biennale”?
E se le si lascia così impudicamente alla mercé di tutti, considerandole un’inezia, un’insignificanza, la mania di qualche rompiscatole pignolo, allora l’arte, che vorrebbe rappresentare, spiegare, proporre, sarebbe un’arte analfabeta e anaffettiva.
Concludo con l’auspicio che in futuro ci sarà maggior attenzione anche per i particolari, benché non consideri certo le “parole” irrilevanti, anzi.
Credo che si corra seriamente il rischio di perderne l’importanza, di dimenticarsene, e spero che non si arrivi mai a rimpiangerle.
Ed è per questo che gliene ho scritte alcune: per mantenerle in vita, per non rassegnarmi pigramente alla loro, in questo caso, irrilevanza artistica.
Sono infatti convinto che le parole, la loro forma, l’esattezza con cui le si scrive e le si pronuncia, sia il significante, l’inconscio collettivo, della società in cui tutti viviamo.
 

sabato 22 giugno 2013

art night 2013 a Venezia

Questa sera a Venezia c’è art-night.
L’iniziativa consiste in una miriade di occasioni sparse in tutta la città ( http://www.artnightvenezia.it ), ma io scriverò due parole su questa precisa iniziativa ( http://www.artnightvenezia.it/it/staffetta ).

La staffetta in questione fa parte di quel progetto in divenire, cominciato con l’iniziativa “Venezia città di lettori”.
Alcuni di noi parteciperanno a questa maratona: di libreria in libreria, accompagneremo chi ha voglia di ascoltarci, offrendo ad ogni tappa la lettura di uno o due racconti di un libro che si concentra sul tema del femminicidio.

Ci sarebbe molto da scrivere: sul fatto che una città come Venezia - città d’arte per definizione - stia in tal senso agonizzando; sul fatto che il femminicidio sia un argomento di cui siamo costretti a parlare in termini attuali, invece di descriverne la barbarie, declinandola al passato; sul fatto che si legge sempre meno.

Ci saranno occasioni per farlo, ma lo farò un’altra volta: ora mi devo preparare per la lettura di stasera: sarò alle 18 alla libreria Mare di Carta, ai Tolentini. Da lì, seguirò la staffetta, e poi mi godrò la serata e la notte, con la consapevolezza che ho il privilegio di vivere in una città meravigliosa, e di poter e dover fare la mia parte, affinché rimanga tale.

domenica 16 giugno 2013

la grande bellezza: piccola recensione

La grande bellezza non è solo un film: è una parentesi emotiva ed estetica.
La trama infatti è esile, sembra un pretesto per mettere insieme una serie di immagini, di situazioni paradossali, di inerzie estasi vizi noie abissi abbandoni ostentazioni desideri: un frullato, lento ma inesorabile, di gente e visioni e parole, che sembrano ripiegate su se stesse in un vorticoso niente.
“Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente”, dice due volte il protagonista, che qualche decennio prima aveva scritto il suo unico grande romanzo, e poi si è dedicato alla vita mondana e al mestiere di giornalista cinico e scafato, cui non gliela si può dare a bere con la fuffa e il blabla: no, lui sa, conosce, frequenta, incide sul tutto mondano, che è appunto il niente.
E il niente non si può scrivere; e anche se si potesse, non ci sarebbe chi sa leggerlo.
Eppure, mentre il film procede senza avanzare, mentre la vita di un sessantacinquenne continua senza esistere se non a livello estetico, si assiste a un miracolo, ad una poesia non pronunciata, ad una carica infinita di grande bellezza.
Ricordo le parole di un mistico che invitava non tanto ad ascoltare e capire le parole che egli stesso pronunciava, ma ad abbandonarsi al silenzio che intercorre tra una parola e l’altra.
Ed è proprio questa sensazione che ho avuto nel film di Sorrentino: una sorta di messaggio subliminale estatico, camuffato da una sublime estetica.

sabato 15 giugno 2013

Ho finito di leggere "Proust per bagnanti" una settimana fa circa.
Non sapevo se scriverne qualcosa o se lasciar perdere, e provo a spiegarne le ragioni: in queste ultime settimane Emanuele Pettener, l'autore, è diventato una persona con cui ho condiviso alcune ore spensierate, seduti a Venezia nei tavolini di un bar all'aperto, oppure passeggiando, e sempre parlando di libri, di gusti letterari, di visione della vita.
Se la letteratura è l'arte che meglio di altre testimonia il percorso terreno delle nostre esistenze, allora non si possono omettere la vita, le biografie, le idee, le aspettative che ognuno di noi ha, senza tradire la buonafede. Scrivo questo perché, checché ne dica lui - l’autore -, i condizionamenti esistono, e non è facile liberarsene. Ma giunto fin qui, dopo la premessa esistenziale, visto che ho deciso di scriverne, e visto che non posso che scrivere ciò che penso, scrivo quel che penso.

Proust per bagnanti è un romanzo breve, eppure esaustivo. Racconta l’intrecciarsi delle vite di tre persone, tre italiani, nel sud della Florida. L’ambientazione è l’università locale: due personaggi vi insegnano, un’altra lavora nella caffetteria del campus.
Le loro esistenze si incontrano, si raccontano, rivelano il loro passato, parlano del presente, prefigurano il futuro.
Come dicevo a Emanuele, la qualità che ho apprezzato di più della sua scrittura, è la leggerezza; quella leggerezza di cui Calvino ci parla nelle sue lezioni americane. Una leggerezza che con toni agili, riesce a raccontare i drammi del passato di due dei tre protagonisti, arrivando in profondità, al nucleo centrale della storia e dei sentimenti, senza però appesantire la parola, che rimane sempre controllata, lieve.
C’è una trama forte, un intreccio studiato, un finale a sorpresa, pur non essendo un giallo o un noir.
In alcune parti, laddove la leggiadria diventa parodia, mi è piaciuto meno, ma sono parti minori, ininfluenti, e riguardano soprattutto il mio gusto personale. In altre invece, dove la trama scende nelle zone oscure del passato, ci sono alcune pagine che ho trovato davvero efficaci, incisive, e rivelatrici dell’intelligenza dell’autore.

Ecco, fatta.
Non amo scrivere recensioni: mi piace molto parlare dei libri, questo sì; ma è un esercizio diverso, richiede più passione che tecnica, più intimità che razionalità.
Il linguaggio e il sapere critico non mi appartengono; dentro di me mi dico che ormai so riconoscere un libro buono da uno cattivo, ma è una convinzione derivante dalla lettura di molti libri, e dal vizio di scrivere, che è un faticoso privilegio.
Come dicevo all’inizio, non sapevo se scriverne o meno, ma l’ho fatto.
Un pomeriggio, seduti a Santa Margherita, persi nella bolla della chiacchiera su libri e autori, parlando dello scrivere, ci dicevamo che invece delle solite AA.VV., ci sarebbe piaciuto un libro in cui gli scrittori raccontano il processo chimico-elettrico che si impadronisce di loro trasformandoli in medium, in una sorta di canalizzatori di una storia che dev’essere raccontata, che guida le loro dita, che li costringe a sedersi, e a tirar fuori quel coacervo di parole cui devono soltanto dare un ordine, un senso compiuto; ma che non è loro, che appartiene a chi le leggerà.
E‘ quello stesso processo che ha guidato le mie dita adesso, che ho assecondato, e che mi fatto scrivere di questo libro, di questo autore, di me, della gioia della lettura.
 

martedì 4 giugno 2013

tana libera tutti report parte 2

Parte 2

Eccoci seduti attorno al tavolone della sala mensa. Siamo una dozzina, in attesa di rimettere ordine alla rutilante sequenza di eventi subitanei. Andrea ci rispiega come fare, cosa fare, perché fare: lo ascoltiamo devoti, come timidi discepoli, ammirando in silenzio la sua energia vitale. Al tavolo ci sono sei ospiti della struttura, due scrittori, una giornalista, una rappresentante culturale del comune, due suore. Rompe il ghiaccio già rotto da Andrea, Alfio, il più colto matto simpatico estroverso circense del gruppo ospiti.
Il suo esordio (toccando una copia del manifesto che ributta sul tavolo schifato): "i comunisti non li posso vedere".
Compare in piedi Lupo, il poeta creativo vestito in polo, cravatta e giubbino: è l'addetto vendita delle scarpe-giusto-per-tirare-su-il-budget. Capelli bianchi, la sua età, lingua vernacolare (si esprime solo in venexian), dice che non vuole sedersi, che deve fare il suo lavoro, se ne va.

Cronache
Alfio riprende con le massime: " chi non lavora non fa l'amore"; mentre lo dice, ridendo, balbettando leggermente, mette la mano in posizione e fa il gesto su e giù: è seduto davanti alle suore, le quali ridono amabilmente. Prosegue l'andazzo romantico con "quanta mona che ghe xe aea bienal" ( quanta gnocca c'è alla biennale: citazione colta da una celebre canzone dei pitura freska). E giù risa.
Insiste, ormai conquistato il pubblico " l'unica cosa vera dei giornali è la data". Lo ripete più volte, come chi fa una battuta che gli piace. Sorridiamo.
Livio dice ad Andrea di essersi fotografato il tatuaggio, e che possiede una digitale, per cui non ha bisogno dell'usa e getta che fa parte del kit.

Citazioni

Wittgenstein dice “ tutto ciò di cui non si può parlare è maglio tacerlo”;
“con te partirò”;
“so di non sapere”, per cui mi metto nelle condizioni di assorbire ciò che non so, dagli altri;
Socrate diceva “c’è chi sa e c’è chi non sa”;
“I sofisti sono quelli della televisione”;
“la volontà è un’energia che spinge ad agire”;
“Socrate non ha mai scritto una riga”, dice un altro per non mettersi a scrivere; “voglio avere la possibilità di non scrivere tutto, di conservare una parte personale di riservatezza”. Glielo diceva anche lo psicologo, ma lui, per le stesse ragioni, non lo faceva;
“va bene la comunione, il pane, il vino, ma prima vengo io”;
“un bel tacere non fu mai scritto”

Setting

Come sempre, ad un certo punto, i gruppi numerosi seduti attorno ad un tavolo, si separano formando piccoli sottogruppi. Alla mia sinistra le suore con Camilla, Maurizio e un paio di ospiti; con me Alfio e Livio.
Chiedo ad Alfio di spiegare la ragione per cui lui odia i comunisti. Si precipita nel racconto: cresciuto in una famiglia borghese, il padre capo della celere, la madre contessa, gli avevano inculcato che i comunisti sono più o meno merde parassitarie, e a non disdegnare i poveri, ma a denigrare la povertà. Lui riconosce di esserne stato fortemente influenzato, di non essersi mai emancipato da questa tara, che riconosce ingiusta, e tuttavia invasiva. Poi parla del cugino, cui lui ha regalato tutti i suoi libri d’arte, e che adesso è milionario, mentre lui è ospitato dalla caritas. Fa dei gesti espliciti, come chi sa di aver sperperato un patrimonio in agiti poco onorevoli, in vizi costosi; aggiunge che “i gemelli sono idioti geniali”, in riferimento al suo segno zodiacale. Ride beffardo, ride di sé, si riconosce in quella geniale idiozia; ma “idioti come l’idiota di Dostoevskij”. E giù un campionario di descrizioni bignami del maestro e Margherita, di Anna Karenina.
E Livio, che racconta la sua storia di anarchico argentino, figlio di immigrato siciliano, scappato in Italia nell’86, dopo aver vissuto la spaventosa inflazione del 76, ma contento di essersi risparmiato quella del 2001.
Parla di Borges, di Cortazar, di Bolano, di Che Guevara, di Papa Francesco, del Lumfardo (il dialetto di Buenos Aires, all’inizio dipochi, poi diffuso ovunque), di Alreves (il linguaggio per cui pronunciano le parole al contrario per non farsi capire dai non argentini), e mentre Alfio continua a ripetere che “però lui, mica scemo”, lui risponde che “non è scemo, ma solo un disagiato sociale”.

Il tempo passa, le confidenze continuerebbero ad oltranza, ma c’è da andare.
Ci si vorrebbe scambiare più cose, più tempo, più parole. Si sa di aver fatto “arte povera”, mentre quella ricca, ufficiale, in mano ai critici, ai galleristi, ai finanzieri, è solo una sorta di puttana incomprensibile, a volte affascinante, più spesso irritante e indisponente.
Questi si vestono come dei buffoni, e fuori dal contesto sarebbero scambiati per pagliacci. Forse è vero, forse i segreti della biennale sono anche in questi incontri, in queste utopie che oscillano tra il caricaturale e l’esistenziale, tra i barboni e gli artisti, tra i galleristi e gli artisti che vivono con le pezze al culo pur di incarnare eroi puri, nudi, estetici, estatici.
Il progetto prevede che gli ospiti andranno in giro per i padiglioni e fotograferanno e scriveranno cosa pensano dell’arte concettuale avanguardista postmoderna.
Sono sicuro che qualcuno alzerà il dito e dirà che “il re è nudo”, e tutti giù a farsi una grassa risata.

lunedì 3 giugno 2013

tana libera tutti, report puntata 1



1
L’appuntamento alle 14 alla Biennale dell’Arsenale.
Arrivo, dopo una mattinata di corsa, un concorso a premi per studenti cui sono stato invitato a testimoniare l’esistenza corporea di uno scrittore, a raccontare brevemente l’esperienza di “Venezia città di lettori”, a dire la mia sulla passione per la lettura e la scrittura, a leggere una poesia di Carver.
Tra questi due eventi, un panino con le olive, formaggio stravecchio, mortadella biologica vegetale, l’attraversamento di una città media, con tempi di percorrenza da metropoli ( la terraferma e Venezia sono amministrativamente una, ma urbanisticamente molte).
Per strada, una dozzina almeno di Yachts, ma probabilmente anche di più, degni di Montecarlo, e una marea di gente che si gode in diretta il ritorno a casa, dove potrà dire di essere stata a Venezia, città folle di folla, di arte e artisti, di bancarelle made in china, di rumeni vestiti da carnevale per farsi fotografare con obolo, di venditori di ogni dove, di trecento idiomi in pochi metri quadri.
Arrivo, Camilla è già là con Andrea, il capo, e i suoi collaboratori - o soci - italiani e francesi, con espressioni e modi di chi pratica il mestiere dell’arte.
Entro nella sede in cui si svolgerà l’incontro con gli abitanti del dormitorio Caritas, che faranno con noi questo progetto in cui l’arte servirà come tramite per una maggior consapevolezza di sé, di come si muovono in città, di cosa vogliono, cosa fanno, chi sono. Sì, certo; ma io ho anche il pensiero che si possa ribaltare, e che l’arte abbia bisogno di sempre nuovi soggetti per svilupparsi, ampliarsi, penetrare sempre nuovi ambiti. Un nutrimento reciproco, un mutuo aiuto muto.
In realtà, già dal primo approccio, si capisce che qui, di muto, non c’è nessuno. Tutto è frizzante, eccitato, pregno dell’adrenalina che anima le esistenze che sfiorano la biennale di arte più importante del pianeta terra. E nemmeno gli oggetti, sono muti: la mensa è una stanza verde, i tavoli in legno, gli sgabelli dove sediamo, il cortiletto, la cucina, l’ufficio dove deposito lo zaino pesante ( che ho portato con me per non essere sguarnito, solo); tutto pulsa di restauro, di resurrezione, di superfici rimesse a nuovo, di sudore e di confidenze che i restauratori, gli ospiti del dormitorio, hanno concesso loro, nell’irrefrenabile logorrea che da lì a poco avrei tastato col corpo, coi sensi, con un sottile piacere dovuto al contatto relazionale.
Andrea è ebbro di felicità, non si ferma mai, parla tre-quattro lingue, interrompendo i discorsi, per riprenderli nel punto esatto in cui li aveva lasciati per interloquire con il nuovo visitatore.
Tesse le lodi del suo progetto come solo gli addetti stampa sanno fare: facendo iperboli, gonfiando il senso, facendo compiere alle parole capriole estetiche, sottintendendo plurimi significanti. E’ allegro e simpatico, intelligente, e presumo che dopo, concluso il tutto,  l’energia spesa produrrà un down abissale.
Lo dico non per banale giudizio, ma perché conosco quel tipo di eccitazione adrenalinica che sorregge corpo e spirito, che si conclude con lo schianto, del corpo e dello spirito, nella sbadigliante normalità quotidiana.
We can be heroes, just for one day.
Ma per oggi, giorno in cui dovrei assieme a Maurizio, il giornalista in ritardo per cause professionali, fare lo scrittore che traduce in parole, un clima e un’esperienza, con i simpatici ospiti del dormitorio, che uno alla volta si stanno presentando. Tutto è un flusso energetico eccitato; tutto è contagiato dalla palese follia artistica; tutto è ciò che qui, ora, dev’essere: siamo alla biennale di arte di Venezia, baby, e ce la giochiamo fino in fondo.
Insomma, per essere degli eroi, oggi, ci tocca aspettare le 15.30: un’ora e mezza dopo l’appuntamento. Tutto è relativo, il tempo è un’invenzione umana che non si sposa bene con l’arte di essere artista, il postdatato è un neologismo già caduto in prescrizione.
Le colleghe di Andrea sono molto belle, e hanno l’aria, lo sguardo, le acconciature, l’eloquio, il look di chi, nei vernissage, è un habitué.
Il mio personale ottundimento, invece, rende la mia inadeguatezza alla mondanità, un particolare senza importanza.
Con Camilla e Serena, una giornalista free-lance dell’Eco di Bergamo e del Manifesto, guadagniamo il bar pizzeria che sta nel campo attiguo alla struttura.
Prezzi, trattamento, da grandi occasioni: stai per farti fottere, caro, ma goditi lo spettacolo d’arte varia.
Attorno a noi un flusso inarrestabile di gente. Tutti sono carichi, attentissimi a sembrare indifferenti. Tutti vestono come se l’arte avesse un codice interiore che solo loro conoscono. Accanto a noi una coppia con lineamenti da russi morti di fame ma artisti; lui indossa una giacca lilla, una maglietta forata bianca, una collana degna di Scampia; lei, come lui, è scavata in volto, una frangetta netta, un soprabito sottratto a Wanda Osiris, tacchi altissimi.
Parliamo di Venezia, di Bergamo, di cinema, di arte, di prossemica veneziana, di profitto che tocca sempre agli altri, che per noi la gratuità è la condizione esistenziale.
Il tempo vola, la gente sembra traboccare dal nulla, invade ogni spazio.
L’esercito di bengalesi assunti in nero per fare i camerieri continua a passare a velocità supersonica.
Controlliamo l’ora: è l’ora, ci diciamo; ci alziamo, paghiamo il conto. All’interno del locale il brusio è un’onda sonora poliglotta insopportabile.
E’ pieno di belle ragazze, di bei ragazzi, di bella gente.
C’è un momento in cui tutto tace, tutto si ferma: un silenzio inverosimile ci avvolge, ci fa sentire vivi, vitali, grati di essere lì, in quel preciso momento, al centro del mondo.
Ma non è così: era solo un artificio letterario che ho inventato io, per concludere la prima parte.

http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=40131

domenica 2 giugno 2013

Marco Mancassola "gli amici del deserto"

Eccoci, domenica 2 giugno, 9.30.
Ho appena chiuso il libro di Marco Mancassola "Gli amici del deserto".
Mancassola è uno di quegli scrittori che seguo volentieri, che mi piace come artista e come persona, benché l'abbia a malapena incrociato un paio di volte. Ci sono attrazioni che non hanno bisogno di vicinanza corporea, di allenamento, e che però sono esatte, pertinenti. In questi anni ho incontrato e letto molti scrittori e artisti che mi piacciono, ma che non desidererei conoscere di persona, di cui mi basta quello che le loro opere esprimono. Altri invece, con cui mi piacerebbe sedermi ad un tavolino all'aperto, in una bella giornata di primavera, e chiacchierare, confrontarmi, scambiare quello che siamo.
Mancassola appartiene a costoro.
Ho letto tutti i suoi libri e ho avvertito una crescita, di libro in libro; una crescita come scrittore e come persona che esperisce, che osserva la propria vita e quella degli altri, e la trasforma in parole intellegibili, chiare.
Eppure non posso nascondere una leggera delusione, una piccola mancanza, come se mi avesse promesso di persona che prima o poi avrebbe scritto il suo libro definitivo; che però non è questo: sarà forse il prossimo.
In questo ultimo romanzo ci sono pagine che mi hanno molto toccato; altre in cui ho percepito con chiarezza il mestiere. Momenti in cui ho sentito scorrere la verità, ad altri in cui c'era il lavoro di ricamo tra un periodo brillante e l'altro.
Forse sarà il suo prossimo libro a lasciarmi senza fiato; forse ne parleremo in una di queste primavere, seduti in Campo Santa Margherita a Venezia, bevendo un caffè, raccontandoci quello che abbiamo capito, e quello che ci manca, in questa vita, in modo da renderla qualcosa di cui si può scrivere, in modo momentaneamente definitivo.


sabato 1 giugno 2013

biennale, cortometraggio, poesia

In questo periodo sono molto occupato su più fronti. Ieri sono stato invitato alla premiazione di un concorso per ragazzi delle scuole medie e superiori. Ho raccontato dell'iniziativa "Venezia città di scrittori", ho parlato brevemente della lettura e della scrittura, ho laetto una poesia di Carver.
Al pomeriggio sono stato alla sede della Caritas di Venezia, attigua alla sede dell'Arsenale della Biennale, per partecipare ad un'iniziativa chiamata "Tana libera tutti" ( http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=40131), di cui posterò il report a puntate.
 Sto facendo un cortometraggio tratto da un mio racconto, che si trova nel mio ultimo libro, che si intitola "gusto". L'ho scritto pensando a Gabriele Bortolozzo, e ho chiesto ad alcune persone della zona veneziana, che si occupano a trecentosessanta gradi di cultura, di aderirvi, leggendone un breve pezzo. Ma non voglio anticipare molto. Stamattina, durante una registrazione, parlando con il giornalista Maurizio Dianese, è venuto fuori il nome di un'altra persona che a quei tempi si distingueva, come Gabriele, per visionarietà. Si chiama Ferruccio Brugnaro, un poeta operaio: ecco una sua poesia.


 
Bracciante, raccoglitore di stracci
operaio degli altiforni
pescatore
venditore abusivo di crostacei.
Mio padre
era così
adoratore del sole, adoratore
delle barene
silenzioso
fanatico del mare.
Non ha mai parlato
con nessuno
analfabeta
credente solo nella vita
solo nel suo trascinare
inquietante
dai primi cenni dell’alba
ai tramonti fondi.
Mio padre
così come è stato dentro
in questo mondo torbido
senza chiedere niente a nessuno
stanotte è sceso nel tempo
profondo
nei cieli grandi che lui guardava
per ore e ore
negli universi incandescenti e amati
con dura segretezza.
Non sono triste
sono felice
contento
me lo risento dentro tutto
irruentemente
ora
con suo canto dalla nostra cucina nera
e senza finestre.
Il suo canto, più che un canto
il suo era ed è
un grido, un urlo selvaggio
denso
che io rilancio con tutta
la forza delle ferite
di un amore a brandelli
contro queste ore
di padroni affamati di sangue
di retate
contro le sbarre pesanti dell’emarginazione
contro le foreste di un dolore
e una solitudine senza fine.