sabato 6 aprile 2013

suicidi a nord est

Sui giornali di ieri, due notizie particolarmente drammatiche: i tre suicidi marchigiani; l’ennesimo suicida a nord est.
Il punto di contatto tra questi, la “questione economica”. Ecco, vorrei spendere qualche parola su questa questione.
Da quanto si evince dall’articolo, e mi riferisco a quello veneziano, il veneto è la regione con più suicidi legati alle condizioni economiche, soprattutto da parte di piccoli imprenditori. Per essere precisi, l’altro giorno sentivo che, in termini statistici, non c’è una differenza di quantità di persone che si suicidano; si tratta però di una qualità diversa, legata a disperazione conseguente a debiti, alla chiusura di attività, o come nell’ultimo, del pignoramento della casa.
Non posso non pensare che questo ha fortemente a che vedere con la disperazione di chi si sente solo, abbandonato, che non regge la vergogna di non essere più in grado di mantenersi, di saldare i propri debiti, di sostenere uno standard di vita decente.
Temo che tutti ne parlino in termini economici: benessere vuol dire avere abbastanza soldi.
Non vorrei apparire ridondante, moralista: non è questa la questione. Credo che bisognerebbe spostare un pò la visuale, il focus dell’osservazione.
Credo che ci sia altro, che non sia solo una questione contingente; credo che più in profondità, laddove vivono i nostri segreti, dove ci sono i pensieri che non hanno voce, ci sia un sentimento di inadeguatezza, di fatica, di incapacità di comprensione rispetto alla vita che mediamente ci tocca vivere, e a cui, invece, dimostriamo di aderire in modo acritico.
Il lavoro diventa la nostra identità, ne impone i dettami estetici e psicologici, e non tiene in considerazione che ciascuno è diverso; e saremmo noi, con quello che siamo, i primi a dover alzare la mano, a prendere parola, a raccontarsi, a segnare le differenze e le somiglianze. Troppo spesso, invece, viviamo per imitazione, per stereotipi; troppo spesso, soprattutto nel nord est- che forse non esiste già più, demolito da una crisi mordace, sconfitto dalla sua stessa ingordigia- pare che l’unica possibilità sia quella di aderirvi, di vivere per lavorare: non importa quante ore, quanti sacrifici: lavora, lavora, lavora.
E quando un modello penetra nella coscienza, vi costruisce il nido, ne diventa padrone, allora tutto quello che non gli somiglia diventa estraneo: diventa il nostro straniero interiore, a cui non concediamo il permesso di soggiorno, che vorremmo cacciare.
E questo genera isolamento, paura, solitudine. Ci si dice che se non si è all’altezza, che ci si merita le bassezze sociali e morali. Non si trova più una comunità viva, un interlocutore ricettivo: i conoscenti li si saluta, ci si scambia due chiacchiere, ci si confida il confidabile, tenendosi l’indicibile, che giorno dopo giorno cresce, cresce, fino a diventare il padrone. Le istituzioni sono percepite, e si comportano, come un nemico da cui nascondersi, da fottere, da evitare.
Non siamo più capaci di accogliere, di abbracciare, di sorridere; ci siamo concentrati sul mettere via, quando ancora c’era qualcosa che ci avanzava.
Forse è tornato il tempo di diventare di nuovo vicini, di sentirsi facenti parte di qualcosa che somiglia alla società per come dovrebbe essere.
Forse è l’ora di far tacere quei silenzi che ci ingoiano, raccontandoli.
Forse è l’ora di suicidare un modello che non conduce in nessun luogo, e di lasciar vivere quello che si è, senza l’ossessione di quello che si ha, o non si ha più.

Cristiano Prakash Dorigo
   

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