giovedì 25 aprile 2013

25 aprile, un mio racconto intitolato "vista"

vista
Ciao amore,
ti scrivo da questo buco da cui non so mai se uscirò vivo, e che riesco a sopportare solo grazie al pensiero che se ce la farò, ritroverò te.
In questo momento sono steso a terra.
La piccola trincea che sono riuscito a ricavare scavando è molto bassa e tetra; sto quasi tutto il tempo disteso, con l'odore di terra e muschio che m'invade le narici, con i vestiti intrisi di umidità, con le membra anchilosate, in compagnia di insetti e di vermi con cui ormai ho stretto amicizia,  ai quali parlo, senza bisogno della voce: comunico attraverso il pensiero, come un folle  e cede all'illusione di non essere solo.
Si vince anche così l'ansia e la sensazione di essere sepolti vivi.
Mi muovo solo per i bisogni fisiologici che comunque devo cercare di ridurre all'essenziale.     Quando lo faccio, ogni piccolo gesto è una benedizione.
Il mio compito, mi si dice, è molto importante.
Io sono un poeta, e talvolta la parola è più efficace delle armi, dicono.
Aggiungono, come a persuadermi con le loro ragioni, che il rischio di non aver testimonianza di quanto succede qui è troppo elevato.
E molti tra i partigiani della mia squadra, sanno scrivere appena il loro nome.
Loro usino le armi; io, in dotazione, ho carta e matita. Ho inoltre una piccola pistola da usare nel caso mi scoprano: prima che mi facciano confessare il poco che so e riveli dov'è il comando sul Pizzoc, da cui si domina tutta la vallata di Vittorio Veneto.
È una postazione troppo importante per essere messa in pericolo dalla mia  incapacità di resistenza alle torture cui verrei sottoposto.
Li conoscono i loro metodi e, nel caso venissi scoperto, mi dicono con tono confidenziale,  essendo io uomo di grande sensibilità, non potrei sopportare la scientifica brutalità del loro agire.
Perciò, dovesse succedere, un attimo prima che mi catturino, devo mettere la canna in bocca, appoggiarla al palato e premere il piccolo grilletto.
Mi hanno assicurato che non sentirò alcun dolore, che tra il gesto del premere e il sordo nulla della morte, non farei in tempo a contare fino a uno.
Sono appostato sopra in posizione strategica.
Riesco a vedere il grande orribile buco senza esser visto grazie a piccolissime fessure che fanno passare aria e luce.
Ogni tanto arrivano con una camionetta col cassone posteriore coperto da un telo, usato per il trasporto dei corpi.
Di solito ci sono quattro soldati e un ufficiale che dirige le azioni.
I due soldati all'interno del cassone passano un corpo alla volta ai due che sono a terra;     questi altri due si dirigono verso il cratere e lo gettano nelle viscere della montagna attraverso questa enorme bocca  spalancata, che li digerisce dopo averli inghiottiti.
Questo mese sono stato qui dieci giorni in tutto.
Copriamo turni di un giorno e una notte ciascuno.
Siamo in tre a svolgere questo incarico: io, un maestro elementare e uno studente universitario.


Al cambio turno che avviene in un bosco a un'ora di cammino da qui, ci salutiamo abbracciandoci, augurandoci buona fortuna, passandoci di mano la piccola pistola.
Poi si risale, percorrendo il lungo tragitto tra i boschi, con la leggerezza di chi si sente in debito col destino soltanto perché è ancora vivo.
Finora ho assistito a quattro incursioni.
Gettavano cadaveri di partigiani, di civili, di donne e di animali. Una volta sono stato testimone dell'esecuzione di un uomo sui trent'anni.
Messo in ginocchio, pistola d'ordinanza puntata sulla fronte, ha ammesso di aver ospitato nella sua stalla tre uomini che conosceva da prima della guerra.
L'ufficiale tedesco chiedeva con voce molto pacata al camerata, che traduceva le domande urlando all'umiliato ostaggio, come un esaltato. Intervallava parole pertinenti a insulti sputati nello stretto dialetto dei monti del Cansiglio.
Gli hanno sparato in testa, si è accasciato come un sacco vuoto.
L'ufficiale che ha usato l'arma non ha aperto bocca; ha fatto solo un cenno con la testa a due soldati che l'hanno preso per braccia e gambe e l'hanno buttato di sotto.
Mi è sembrato di sentire il suono ovattato del suo corpo che sbatteva sulla parete rocciosa.
Immaginavo i brandelli di carne attaccati alle rocce taglienti, le ossa che si frantumavano, la postura scomposta, del corpo che precipitava nel buio denso della grotta verticale come fosse una bambola di pezza.
E così, affaticato, tutto indolenzito, fradicio di terra umida, per resistere alla noia, al torpore e al terrore, penso a te.
Penso a come sarà quando sentirò il calore del tuo corpo accanto al mio, al tuo sorriso di sole, al tuo sguardo di luna, al suono della tua voce, alla tua pelle liscia e morbida, al fiato di miele delle tue parole.
Nel frattempo osservo e ascolto il bosco.
Gli alberi sono infinita meraviglia, gli uccelli musica sublime.
Sono riuscito a prendere questo foglio che uso solo per te, Gino.
E ho scritto queste parole pensando al tuo nome che è la sola forza che mi rimane.
Ciao,    tuo Cristiano

Mestre, condominio e letteratura, liberazione dall'inutile

Da qualche tempo sono tornato a Mestre dopo sette anni di provincia a nord est.
E’ ancora presto per esprimere un giudizio sulla città che conosco più di ogni altra, ma sto raccogliendo impressioni, giusto per poi potermene distaccare con agilità. Mestre è spaventosa, ma non spaventa: ci si può far influenzare dall’estetica, dal sentire comune che è lamentoso, ma è tutto sommato una città media, abitata da una popolazione civile; è brutta, ma lo è ancor più perché costretta a confrontarsi con Venezia, la sua parte nobile.
Nel condominio dove mi sono trasferito da marzo, in una zona separata dal centro- sforzandosi di individuarne uno- da un sottopasso scavato sotto le rotaie della linea Venezia-Trieste, la zona è tranquilla, bruttina ma non troppo. Ebbene, nel condominio dicevo, ho scoperto un’insolita presenza letteraria.
Il giorno in cui ho partecipato all’iniziativa “Venezia città di lettori”, gruppo di scrittori veneziani che rifiutano il declino di una città che sta svuotandosi di vita, in funzione di una trasformazione  inarrestabile in vetrina d’arte appartenente al passato, a fronte di un presente privo della tensione e commistione di esistenze, che ne sono il presupposto- senza sostanza, l’arte è un bluff-. Quella mattina ho scoperto che una mia vicina, una signora forse inglese, e comunque non italiana, è una scrittrice. Non la conosco ancora, ma lo farò.
Nel frattempo una ragazza che abitava al terzo piano, sopra il mio appartamento, è un’attrice. Sta trasferendosi a Berlino, città dei giovani, pur non essendolo più, lei, anagraficamente parlando. Qui ha fatto per molti anni l’architetto precario, lavorando moltissimo, seppur pagata, parole sue, “meno di una donna delle pulizie”. Si occupava di teatro, alla Murata, il teatro di cui parlavo tempo fa, e conosce gente che conosco anch’io. Va in Germania per disperazione, per timore di consumare le sue energie in funzione di una sopravvivenza molto italiana, visti i tempi: lavoretti a tratti, diritti scambiati per privilegi, doveri fiscali insindacabili.
In questo periodo pare che si debba dare senza aspettarsi alcunché, o al massimo che venga concessa, bontà di qualcuno, la possibilità di un esistere asfittico, stretto. La ragazza è di madre lingua tedesca, e a parte questo, ancora nessun legame, a Berlino. Ci prova: le sembra di averne diritto, di meritarselo.
Questo l’ho saputo quando è venuta a suonarmi il campanello per ringraziarmi di averle lasciato appoggiato alla porta, il mio libro. Ho pensato che fosse un gesto che avrebbe gradito, che le rimanesse una traccia in più da portarsi dietro, quando la nostalgia amplifica i sensi, quando penserà a quello che ha lasciato, e cercherà di ricollocare il lungo filo dei ricordi.
In un libro letto l’anno scorso, Hitchens scrive che se si sente di fare qualcosa per qualcuno, quel qualcosa potrebbe avere un effetto enormemente superiore, in termini benefici, allo sforzo che è costato a chi l’ha fatto. Certo, lui in quel periodo sapeva di dover morire, e si riferiva a quello che sentiva quando qualcuno lo andava a trovare, o gli scriveva, o lo chiamava.
Sono convinto che se fossimo meno cristallizzati nelle nostre abitudini, se fossimo più disponibili, il livello di benessere emotivo, psicologico, relazionale, crescerebbe in modo esponenziale.
E forse così si scoprirebbe che chi ci sta vicino, è migliore di quello che sembra.
Stamattina, 25 Aprile, festa della liberazione, mentre uscivo con cagnona, ho assistito ad una scena che mi ha fatto una certa impressione: c’era un ragazzo bengalese che scappava con le rose in mano- a Venezia, è anche festa di San Marco, e si usa regalare una rosa, “el bocolo” alle signore- dalla polizia. Assieme ad altri quattro ragazzi, presidiavano i semafori di un incrocio trafficato, offrendo quando è rosso, la rosa agli automobilisti.
La polizia forse eseguirà il mandato di dar la caccia ai venditori ambulanti. Fa una certa impressione, nel giorno della liberazione, pensare che qualcuno pensa, che è di questi ragazzi, che ci dobbiamo liberare.
Non oso immaginare cosa accadrebbe, se ci liberassimo dall’inutile.

sabato 20 aprile 2013

violenza di genere e presidente

In questi giorni si sta votando il nuovo Presidente della Repubblica, prassi che sta determinando il suicidio di una certa politica, abnorme effetto di una causa che non è stata registrata a dovere.
Non sono abbastanza cinico, e nemmeno esperto, da capire perché. Ho votato a sinistra, a fatica, e temo che sia stato un inutile spreco di tempo; ma forse non è mai inutile, visto che mi ha insegnato qualcosa.
Mi ha confermato che un popolo ha i rappresentanti che si merita, e che se non ha  ancora capito, si ostina a non capire, mai capirà, sarà sempre destinato a credere che ci sono singole persone- un sacco di leaders si sono succeduti l’un l’altro, con le stesse premesse, sempre tradite-  in grado di mettere a posto le cose, per una sorta di miracolosa capacità esoterica. Siamo un popolo che ha bisogno del capo: un capo che ci rassicura, che ci imbroglia ma che ci tranquillizza, che ci esonera dalla responsabilità individuale.   

Ma c’è un argomento che in questi giorni- ma in realtà ogni giorno- mi tormenta: la violenza degli uomini sulle donne.
Io so che in noi coesistono male e bene, in egual misura, che spesso latitano, e che si manifestano con una certa prudenza.
Il bene di solito è speso perché si vuole qualcosa in cambio; non dico a livello consapevole e strumentale, sempre e comunque. Mi riferisco a movimenti appena più profondi di quanto siamo normalmente abituati, e forse disposti, a riconoscere. Ci si dà con ricevuta di ritorno: a partire da un’accettazione di questo, si arriva a scoprire e mettere a nudo meccanismi più sottili, ma assolutamente veri, e ad osservare con più chiarezza i nostri comportamenti.
Ci sono gesti, detti "agiti", che si caratterizzano, per dirla in breve, con questo schema: prima si fa, poi ci si pensa. Sono i gesti che si compiono in modo compulsivo, che rispondono a meccanismi profondi, incistati in luoghi oscuri, spesso dormienti, di cui si pensa che possano essere scomparsi, e che improvvisamente si manifestano in modo incontrollato.
È forse in quest'ottica che si può considerare la violenza alle donne.
La prevaricazione della parte che non ci piace, che detestiamo, che disconosciamo, e che invece è nostra ospite, esce di colpo, esplode, rapida, agisce.
Questo vale per quello che definiamo raptus.
Ci sono invece altre forme di violenza, catalogate con diversi nomi: maltrattamento, abuso, violenza psicologica.
Per esperienza professionale so che difficilmente se ne esce. Il rapporto vittima-carnefice è apparentemente illogico, fondato su assurdi ricatti, su prevaricazioni, su  rapporti malati. Spesso chi subisce, perdona chi compie quegli atti; questo, pur vivendo vite monche, pur avendo vuoti affettivi, problematiche affettive e sessuali: insomma, l’esistenza rovinata.

Speravo in una Presidente donna, capace di mostrare un uso dolce del potere.
Vero è che in Italia, e non solo, abbiamo donne appartenenti alla classe politica che mi mettono i brividi, tanto sono maschili nell’abusare della loro posizione, ma sono una minoranza. 
Non riesco a non considerare la violenza di genere come un doppio delitto: uno perché fa del male nell’immediatezza, due perché spesso inchioda chi lo subisce, alle conseguenze di quel male.

Nel frattempo, mentre scrivevo, è stato rieletto Napolitano.

domenica 14 aprile 2013

privilegi e torti: mi preoccupo, ma con moderazione


Oggi è stata una giornata ordinaria, di compensazione dopo una settimana impegnativa. Ho fatto un po’ di lavoretti in casa, ho scritto, letto, fatta la spesa.
Nell’incedere tranquillo, mi sono rimaste delle immagini e dei pensieri.
La prima ad avermi colpito è stata la notizia del figlio di Alemanno: pare che la polizia abbia coperto un suo coinvolgimento in una rissa, o aggressione, non ricordo bene. Capirai, siamo in Italia!, penserà forse qualcuno. La questione che mi ha colpito però, non è questa, cui sono purtroppo abituato; no, è il fatto che il ragazzo pare ne combini parecchie, e tutte a marchio protofascista. Suo padre si tiene al collo la croce uncinata, sua madre è la figlia di Rauti- un nome in Italia, zona destra destra-: si è distinto per saluti romani, episodi legati a casa pound, aggressioni appunto di stampo destrorso. Ho anche pensato: e se fosse, specularmente, uno dei centri sociali, la penserei allo stesso modo? No, non penserei allo stesso modo: crescere in un ambiente che ritiene il fascismo giusto, è grave. L’ideologia fascista è un’ideologia pericolosa, nociva, falsamente eroica.
Tutte le ideologie sono cieche, parziali, potenzialmente devianti, e ciononostante non sono tutte uguali: quella fascista si nutre del convincimento che, pur di prevalere e imporsi, può prevaricare chi non la pensa allo stesso modo.
Essere sindaco di Roma capitale, è più importante di fare il ministro, leggevo. Non so se sia vero, ma è certo un incarico di prim’ordine a livello nazionale. 
Mi preoccupo, ma con moderazione.

Vicino casa, dove abito a Mestre, c’è un supermercato lidl: uno dei primi discount tedeschi sbarcati in Italia, solida realtà commerciale. E‘ sempre pieno: metà italiani, metà non: non è una questione di moda, di tendenza, ma di sopravvivenza. Alla cassa ho avuto modo di scambiare due chiacchiere con il cassiere italiano: un ragazzo sui trenta abbondanti, fede al dito, gentile. Gli ho chiesto delle aperture domenicali: l’ho fatto perché sabato prossimo sono stato invitato da confesercenti per parlare da autore dell’argomento: il primo racconto del libro, si chiama “supermarket nord est”, per cui credo abbiano presunto che ho qualcosa da dire. Il cassiere non è contento di lavorare la domenica: gli pagano un pò di maggiorazione, ma gli fottono la vita privata. 
Il lavoro al giorno d’oggi o non c’è, o ti invade, anche fuori orario. Condiziona la  tua identità sociale, ti rappresenta, fa di te non ciò che sei, ma ciò che fai come mestiere. Pare quasi che ogni piccola libertà, sia una concessione.        
Mi preoccupo, ma con moderazione

Stasera con cagnona sono stato al piccolo giardinetto vicino casa. C’erano tre persone in una panchina: sembravano madre, padre, figlio. Questi era un bambino piccolo, steso con le gambe un po’ piegate, la testa sulle gambe della madre, una coperta a proteggerlo dal fresco serale. La madre in mezzo, il padre a a lato, parlavano piano, mi sembravano rumeni, o russi. 
Non lo so cosa succede nella testa degli altri, ma a me le scene e i personaggi nascono così, da una visione, una voce, diventano suggestioni, e poi si trasformano in storie, cui disegno il destino, che si trasforma in realtà costruite con le parole, le quali la sostituiscono.
Vedevo scritta la loro storia, immaginando che quella notte si sarebbero fermati su quella panchina, avrebbero dormito male a causa dell’umidità, il freddo, il pensiero che non è una vita agevole e invidiabile, la loro. Certe condizioni strappano il sonno, incutono terrore, si incistano nei meccanismi percettivi, ne condizionano il funzionamento, allontanando chi li vive dalla realtà; perché la realtà, in questi casi, fa più male del freddo, dell’umido, in quanto si sostiene sull’ingiustizia della natura umana, la quale prevede che ci sia chi prevale, e chi soccombe. Mi sono chiesto se il bambino sognerà stanotte, nel senso che non so se in una panchina di legno si riesce a sognare.
Mi preoccupo, ma con moderazione.

Certe volte mi convinco che finché riesco ad osservare, finché riesco a scrivere, sono salvo. Sono doppiamente privilegiato perché sufficientemente consapevole, e perché nessuno sa che lo sono, privilegiato. Non si direbbe proprio, vedendomi. Non ho segni particolari che lo evidenzino: non sono infatti ricco, non ho particolari virtù; eppure sono mediamente contento di quel che sono, probabilmente perché non ho grandi pretese.
Per cui non riesco a preoccuparmi, anche se forse dovrei, seppur con moderazione.

giovedì 11 aprile 2013

La lucina di Moresco


Lucina di Antonio Moresco

Ho letto Lucina, e lo confesso, ne sono ancora invaso.
A quanto pare il mondo delle lettere in Italia non riesce a non dividersi, a non frammentarsi in tante correnti di pensiero. Una di queste riguarda proprio Moresco, e concorda sul fatto che lo si ama, o lo si odia. Io sono tra coloro che lo amano, e in modo direi quasi viscerale, arrivando a pensare che addirittura lo capisco, lo conosco, so di cosa parla.
Ciononostante, il suo romanzo "gli incendiati" non mi è piaciuto. Lo specifico perché, precede quest'ultimo, nasce come questo da un'esigenza interiore, o forse esterna, cui ha obbedito- lo scrittore che asseconda la missione messianica e vi si arrende e concede?-, e ha scritto di getto questi due ultimi libri.

La lucina è ambientato nella solitudine più profonda: nell'isolamento di un paese di montagna abbandonato, si è rifugiato il protagonista, che vuole sparire alla vita. Conduce un'esistenza che rimane sullo sfondo degli eventi naturali, cui assiste con disincantato stupore. Il parallelo con la violenza degli umani, con l'assecondare la vita che ci tocca vivere, con le regole incomprensibili che ci sovrastano, con un pessimismo cosmico che non risparmia né ripara da una verità feroce, con l'indagare il micro e il macro cosmo, sono continui. Il linguaggio è semplice, asciutto. L'abisso senza fondo, senza senso, senza fine convivono con la consapevolezza che la fine sarà l'inizio della pace.
Gli argomenti di Moresco, la materia, la morte, la solitudine, la cruda verità che si osserva più che giudicarla, ci sono tutti.
Mi colpisce la gentilezza con cui ti conduce verso mondi e modi che risultano credibili pur non essendolo. Mi viene in mente solo un altro scrittore italiano vivente, che riesce a portarti in gorghi senza fine con tanta naturalezza: Giulio Mozzi.

L'altro giorno ero in autobus con mia figlia. È salito un giovane tossico, non ancora rovinato somaticamente, ma "fatto duro". Si siede vicino a noi, chiude gli occhi, si addormenta ripiegandosi su di sé fino a crollare lateralmente con lentezza, arrivando a toccare con la fronte il ginocchio destro di mia figlia. Lei si è irrigidita, in grave imbarazzo per sé, ma soprattutto per questo ragazzo, che aveva pochi anni più di lei. Ad un certo punto sono intervenuto, gli ho detto di svegliarsi, lui si è profuso gentilmente in mille scuse, e se ne è sceso di corsa alla fermata.

Stavo leggendo le ultime pagine del libro e il grigio paesaggio urbano, il rumore del bus, il brusio in sottofondo, la scena col tossico, mi hanno fatto sentire la necessità di questo e di pochi altri autori. Moresco non è quasi mai divertente, non fa ridere, non ammicca, non ha il sole in tasca né il sorriso sempre pronto: ce ne sono già tanti così. Ti costringe però a guardare, ad ascoltare.
Ti invita a sfidare gli ostacoli e a scoprire a chi appartiene quella vocina, quella lucina, che talvolta senti e vedi, e che quasi mai accogli, tappandoti le orecchie, chiudendo gli occhi, parlando d'altro.

martedì 9 aprile 2013

Limonov è un capolavoro?

Letto “Limonov”, di Carrère, Adelphi.
Inizio subito con un giudizio secco: penso che sia un libro che val la pena leggere, scritto bene, interessante, sorprendente: mi ha fatto conoscere un artista( come definirlo altrimenti: scrittore, avventuriero, politico?) che non conoscevo, mi ha fornito una versione della recente storia russa, che non avevo mai approfondito abbastanza.
Scritto in terza persona, con brevi accenni della storia personale dell’autore, racconta la vita di Limonov dal 1943 al 2009. Preferisco non dirne quasi niente, se non che nonostante le molte contraddizioni, il miscuglio ideologico che si avvicina pericolosamente anche al fascismo, certe sue idee molto lontane dalle mie, il personaggio raccontato da Carrère risulta irresistibile. Per una buona parte del romanzo l’autore, mi è sembrato un bravo mestierante, un francese borghese, un po’ secchione, che sa come si maneggia la parola. Verso metà però, ho capito che era ingeneroso, e forse, dovuto ad un pregiudizio: essere colti, di buona famiglia parigina, abituati a una vita agevole, comoda, che ti consente di raccontare la vita degli altri al calduccio, non è di per sé un peccato. 
Alla fine, quando racconta l’esperienza con la meditazione, sua e del protagonista, ho riconosciuto che si trattava dei miei meccanismi di difesa, che io non lo accoglievo, che non volevo spostarmi dall’impressione iniziale, cadendo così in un duplice pregiudizio- quello di cui sopra, quello che chi pratica la meditazione, incontra la mia immediata disponibilità-.  

Devo però dire che non mi è parso il capolavoro di cui avevo spesso letto, e qui dovrei addentrarmi in un discorso che temo mi possa sfuggire di mano. Cercherò di essere concreto, breve e, temo, non esaustivo.
Tra gli ultimi libri che ho letto, Limonov, “Stoner”, “il senso di una fine”, erano tra quelli definiti tali.
Senza perdere troppo tempo sul concetto di marketing, sappiamo tutti che scrivere che un libro è un capolavoro, fa discutere, e quindi vendere.
Ma nel caso di Limonov- lo ricordo, un Adelphi-, quel termine non lo avevo letto sui soliti giornali, dai soliti critici, ma da persone con cui ne avevo parlato direttamente; persone con cui mi piace parlare di libri, che non hanno alcun interesse, se non appunto quello di parlare di libri.
Ebbene, ne scrivevo anche poco tempo fa: non so esattamente in cosa consista la qualità di un libro, figuriamoci se so cos’è un capolavoro: quali caratteristiche debba avere, quali misure e forme e contenuti debba soddisfare.
Quello che posso dire in proposito, è che cerco sempre si leggere “buoni libri”, cerco di farmi consigliare da persone di cui mi fido, di leggere scrittori o critici cui riconosco libertà di giudizio, librai e amici, ecc.
Ebbene, dopo tante parole, arrivo al dunque.
L’ultimo libro che ho letto, che secondo me lo è, è “2666” di Bolano, Adelphi.
Dopo di questo, ne ho letti molti altri, buoni e non; ma solo questo, di recente, mi ha fatto pensare di aver avuto la fortuna di aver incontrato “un capolavoro”.

sabato 6 aprile 2013

suicidi a nord est

Sui giornali di ieri, due notizie particolarmente drammatiche: i tre suicidi marchigiani; l’ennesimo suicida a nord est.
Il punto di contatto tra questi, la “questione economica”. Ecco, vorrei spendere qualche parola su questa questione.
Da quanto si evince dall’articolo, e mi riferisco a quello veneziano, il veneto è la regione con più suicidi legati alle condizioni economiche, soprattutto da parte di piccoli imprenditori. Per essere precisi, l’altro giorno sentivo che, in termini statistici, non c’è una differenza di quantità di persone che si suicidano; si tratta però di una qualità diversa, legata a disperazione conseguente a debiti, alla chiusura di attività, o come nell’ultimo, del pignoramento della casa.
Non posso non pensare che questo ha fortemente a che vedere con la disperazione di chi si sente solo, abbandonato, che non regge la vergogna di non essere più in grado di mantenersi, di saldare i propri debiti, di sostenere uno standard di vita decente.
Temo che tutti ne parlino in termini economici: benessere vuol dire avere abbastanza soldi.
Non vorrei apparire ridondante, moralista: non è questa la questione. Credo che bisognerebbe spostare un pò la visuale, il focus dell’osservazione.
Credo che ci sia altro, che non sia solo una questione contingente; credo che più in profondità, laddove vivono i nostri segreti, dove ci sono i pensieri che non hanno voce, ci sia un sentimento di inadeguatezza, di fatica, di incapacità di comprensione rispetto alla vita che mediamente ci tocca vivere, e a cui, invece, dimostriamo di aderire in modo acritico.
Il lavoro diventa la nostra identità, ne impone i dettami estetici e psicologici, e non tiene in considerazione che ciascuno è diverso; e saremmo noi, con quello che siamo, i primi a dover alzare la mano, a prendere parola, a raccontarsi, a segnare le differenze e le somiglianze. Troppo spesso, invece, viviamo per imitazione, per stereotipi; troppo spesso, soprattutto nel nord est- che forse non esiste già più, demolito da una crisi mordace, sconfitto dalla sua stessa ingordigia- pare che l’unica possibilità sia quella di aderirvi, di vivere per lavorare: non importa quante ore, quanti sacrifici: lavora, lavora, lavora.
E quando un modello penetra nella coscienza, vi costruisce il nido, ne diventa padrone, allora tutto quello che non gli somiglia diventa estraneo: diventa il nostro straniero interiore, a cui non concediamo il permesso di soggiorno, che vorremmo cacciare.
E questo genera isolamento, paura, solitudine. Ci si dice che se non si è all’altezza, che ci si merita le bassezze sociali e morali. Non si trova più una comunità viva, un interlocutore ricettivo: i conoscenti li si saluta, ci si scambia due chiacchiere, ci si confida il confidabile, tenendosi l’indicibile, che giorno dopo giorno cresce, cresce, fino a diventare il padrone. Le istituzioni sono percepite, e si comportano, come un nemico da cui nascondersi, da fottere, da evitare.
Non siamo più capaci di accogliere, di abbracciare, di sorridere; ci siamo concentrati sul mettere via, quando ancora c’era qualcosa che ci avanzava.
Forse è tornato il tempo di diventare di nuovo vicini, di sentirsi facenti parte di qualcosa che somiglia alla società per come dovrebbe essere.
Forse è l’ora di far tacere quei silenzi che ci ingoiano, raccontandoli.
Forse è l’ora di suicidare un modello che non conduce in nessun luogo, e di lasciar vivere quello che si è, senza l’ossessione di quello che si ha, o non si ha più.

Cristiano Prakash Dorigo
   

giovedì 4 aprile 2013

cronaca di un intervento di cinque minuti alla libreria Marco Polo


 

oggi ho partecipato all'iniziativa promossa dalla libreria Marco Polo ( guardare la colonna dei link a destra). Le ragioni che mi hanno spinto sono molteplici: intime e politiche, ma se dovessi dirne una, direi che ho grande stima del lavoro che Elisabetta e Claudio ( senza dimenticare Sabina) portano avanti da anni.
Ho contibuito così: mi sono tappato la bocca con la sciarpetta, ho acceso il pad su cui avevo registrato la mia voce che leggeva un raccontino di quattro minuti, ho scritto dei fogli ( che continuavo a girare alla Dylan) con la seguente sequenza di parole:





1-se le librerie chiudono gli scrittori non scrivono
2-se gli scrittori non scrivono nessuno legge
3-se nessuno legge le librerie chiudono
4-se le librerie chiudono, gli scrittori non scrivono, nessuno legge,
5-la libertà e la verità saranno ad uso e consumo di chi vuole le librerie
6-CHIUSE


di seguito, il breve racconto letto ad alta voce dal pad

Ventisette coltellate

Facevo il servizio militare a Casarsa della Delizia, il paese di Pasolini e di nient'altro, reparto artiglieria pesante campale.
Io ero in ufficio posta e viaggi, i miei compagni sparavano con dei cannoni a lunga gittata,, facevano manutenzione ai mezzi, si occupavano di cucinare, marciavano e facevano le guardie.
Io organizzavo i viaggi delle loro licenze e smistavo la posta: ero un imboscato utile alla causa.
Condividevo il tempo con un gruppo di commilitoni, con i quali mi strafacevo di canne dalla mattina presto alla sera tardi. Era durissima essere un dark-punk-militante-militare: dovevo uscire dalla gabbia, e quello era il modo.

Nel nostro gruppetto ognuno faceva il suo: c' era chi riforniva la scorta tornando dalla licenza, chi piazzava la merce preziosa all'interno della caserma, chi si occupava di dividerla in pezzi pesati, chi faceva cassa, ecc.
Più che una piccola banda criminale, eravamo dei giovani annoiati e ingenui.
Ricordo Roberto da Parma, con l'erre moscia, Fausto dal Trentino, Michele dall'entroterra fiorentino, Remo dalla periferia romana, Mauro da Brescia, Salvatore da Catania, Gennaro da Caserta, Rino da Milano, Elio dalla provincia di Vicenza. E poi molti altri, di cui ho dimenticato i volti e i nomi.
Io ero il meglio piazzato, nel mio ufficio, a fare la cresta, a strappare le lettere di chi mi stava antipatico, col mio bel letto all'interno dell'ufficio senza finestre, col grado di caporale. Avevo scelto di dormire là per evitare gli scazzi con i vecchi che ogni tanto di notte giravano per fare quegli scherzi idioti tipo rivista cingoli, che consisteva nel riempire di pattina i piedi delle spine, i nuovi arrivati. Potendo scegliere, non riuscendo a contrastarli, avevo scelto di lasciarli a quei riti di follia collettiva accettata, che servivano a controllare le truppe.

La maggior parte dell'attività col fumo si svolgeva all'interno delle docce, gestite da Michele e Remo, i due veri reietti del gruppo.
Un giorno vediamo arrivare i carabinieri. Tutti a temere che ci avessero scoperti, tutti a nascondere qualsiasi traccia dagli armadietti, dai bagagli, in attesa del peggio.
Quel giorno non successe niente, se ne andarono. La sera ne parlammo, eravamo tesi, preoccupati. Quella notte non dormimmo.
Il giorno dopo tornarono i carabinieri.
Si recarono alle docce.
All'interno dell'utilitaria Fiat blu, riconoscemmo Michele e Remo.
Alla sera decidemmo che comunque fosse andata, avremmo negato di essere persone che facevano parte del giro, ammettendo al massimo di essere consumatori occasionali.
Il giorno dopo la notizia fece il giro della caserma. Nei giornali locali la notizia occupava tutta la prima pagina: ufficiale americano ucciso con ventisette coltellate in accelerazione: il delitto maturato nel mondo della prostituzione omosessuale. Arrestati due militari di leva a Casarsa della Delizia.
Ventisette coltellate, accelerazione, omosessuale, Casarsa.
La sera stessa, abbiamo venduto, parlato e fumato più che mai.

A distanza di anni ho cercato la notizia in internet ma non ho più trovato niente.
Non so che fine hanno fatto.
So invece che fine ha fatto Pasolini.
Ma non so che fine ha fatto la mia vita.