martedì 19 marzo 2013

festa del papà

Oggi è la festa del papà.

L’altro giorno è stato il compleanno di mia figlia. Ha compiuto quindici anni, un’età che molti genitori considerano critica, che temono, che immaginano li costringerà alla lotta, al martirio. Di mio la considero un’età, punto.

Pensavo alla sua età, alla mia, ma soprattutto al fatto che erano passati già quindici anni da quando l’avevo tenuta per la prima volta in braccio, l’avevo baciata, l’avevo sognata e finalmente vista, toccata, annusata.
Non temo il passare del tempo, non mi spaventa l’idea di invecchiare, quanto piuttosto di cercare di vivere il tempo che passa, di sentirlo scorrere, di non dovermi pentire di averlo smarrito che poi, lo sappiamo tutti, non torna.

Ci sono stati molti giorni prima degli ultimi ( 365 per 15 uguale 5475) cinquemilaquattrocentosettantacinque, e questi però sono stati davvero pieni della sua presenza, come fossero riempiti, farciti, dell’intreccio dei nostri destini.
Non mi piace il paternalismo, la retorica talvolta barocca, mielosa, con cui si descrive il rapporto coi propri figli. Non credo che il nostro sia particolarmente diverso dagli altri; non credo di essere capace di un amore straordinario, non mi pare obiettivamente di cogliere chissà quale legame. E aggiungo che sbaglio spesso, che ci discuto continuamente, che mi arrabbio e la faccio arrabbiare, che l’avrò delusa e ferita, come chiunque altro abbia fatto il genitore, senza volerlo, pensando di fare bene, o a volte anche in modo gratuito, e che non mi autoassolvo con leggerezza per questo.
Eppure, in modo credo abbastanza laico, posso affermare che un sentimento così viscerale- nel senso di senza dubbio profondamente interiore-, così assoluto- nel senso che non è governato da me-, così delicato e possente insieme, non l’ho mai sentito.
Il rapporto genitoriale, quello amoroso, sono pieni di aspettative, tormentati da uno sfondo “ricattatorio”- nel senso di dare-avere-, e possono essere anche più intensi nel bene e nel male, ma transitori, subenti intemperie, correnti, eventi.
Questo no: questo c’è, a prescindere.
Non sto affermando che così è in senso universale, che vale per tutti, che si deve figliare per capire il senso della vita, i limiti della propria, per percepire l’immortalità. No, sto parlando di me, e so che questo vale per me, nella misura in cui ogni esperienza vale in modo soggettivo per ciascuno.

Oggi ha pubblicato su un social una serie di foto che ritraggono entrambi, quando lei era piccola, e io senza barba e più giovane. Al di là della questione “social-specchio dei tempi”, confesso che mi ha fatto molto piacere.
Un piacere semplice, quasi banale, che ha a che fare coi sentimenti, senza sentimentalismo.

Tempo fa parlavo con un amico giornalista, il quale mi chiedeva del rapporto tra quello che avevo scritto sul mio ultimo libro, e la reazione che mia figlia avrà, leggendolo.
Gli ho risposto che i libri migliori che ho letto raccontano il “vero”, senza essere necessariamente biografiche. 
Questo non per dire che il mio libro sia paragonabile a questi- ho il senso del limite-, ma che confido nella sua intelligenza e nella sua capacità di coglierne l’urgenza narrativa.
Credo infatti di aver scritto un libro che descrive in forma soggettiva dei sintomi; e che questi non sono i miei, ma quelli che in questi anni ho incrociato, in me e negli altri.
Non so se questo le renderà lo stesso orgoglio che io provo nell’essere suo padre, ma questo è un particolare secondario.

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