domenica 4 novembre 2012

ikea, il giorno dei santi: appunti sparsi sul marketing proiettivo gentile. parte 2

parte 2
La fame incombe, lavora di brutto, borbottii, salivazione: la fila è la conferma della teoria di Pavlov. L'attenzione morbosa con cui ciascuno diventa sentinella del proprio posto in coda, rivela l'istinto di sopravvivenza in tutta la sua aggressività. Siamo passati, in un salto quantico, dalla dolcezza caramellosa del reparto bebè, alla pugnace conservazione della specie, in meno di venti metri lineari.
La fila indiana, che solo i bambini hanno il coraggio di sparigliare, segue lentamente il suo decorso, aumentando proporzionalmente col passare del tempo, fame e istinto animalesco. Nel frattempo, con una tecnica meditativa, osservo il menù, giustappunto al fine di rendere l'attesa, una sorta di preliminari amorosi, che culmineranno con l'orgasmo della masticazione e della deglutizione. Questo prevede anche una parte dedicata ai vegetariani. (E qui dovrei uscire dal tono supponente e aprire una parentesi seria. Mi chiedo se avere una porzione di menù dedicata ai vegetariani sia sintomo di civiltà, di modernità, di opportunismo commerciale. Mi rispondo che è tutto questo insieme, che da vent'anni a questa parte, da quando cioè non mangio carne e pesce, il livello di offerta si è decisamente alzato, e fare questa scelta, che sarebbe seria e che meriterebbe un post a sé, non è più un'impresa pionieristica, ma, appunto, una semplice scelta. Concludo che non ho risposte precise, ma che mi fa piacere ci sia questa opportunità: sì, il piacere non è escluso dalle scelte alimentari).
Alla fine decido che, porco corpo!, oggi è la giornata che mi vaffanculo da me: porcherie insane, in mente insana! Patatine fritte e arancino di riso, acqua, macedonia.
Pago, mi avvio verso un tavolo libero alla periferia estrema. Dopo un pò si siede accanto a me una coppia omosex molto raffinata, che mangia lentamente e in silenzio il suo pasto decisamente più urbano del mio, lanciandomi talvolta occhiate condiscendenti.
Mangio per la fame, ma ammettendo a me stesso che il pasto è orripilante, e che soprattutto le patatine fritte con olio svedese, sono fredde e frigidine, contrariamente alle mie aspettative voluttuose. Consumata la misera libagione, confermata nella sua sostanza miserabile da una macedonia post-industriale, dopo essermi dovuto genuflettere per depositare il vassoio sopra cui avrei volentieri sputato se avessi sciolto il ridanciano coatto che mi abita, ma di cui mi vergogno, almeno in pubblico, sono stato ripagato da una visione celeste: la gabbia trasparente per i fumatori. Situata tra il reparto, le toilettes e il self service, c'è la vetrinetta del peccato, all'interno della quale un paio di padri di famiglia abbastanza giovani consumano il loro vizio, essendo guardati da tutti, e guardando a loro volta la massa di consumatori alternativi. Dei due, uno fumava nervosamente, consumando la cicca in poche tirate, formando una brace ardente lunga quanto la lunghezza della sigaretta, mentre l'altro, sciarpetta, occhiali da sole, si faceva su una sigaretta lentamente, leccando la cartina come fosse lo spot di un profumo in cui si allude a una sensualità potenziale, un pò esibita, ma al tempo stesso misteriosa.
La gabbia sembra una perversione concettualizzata, una ostentazione pornografica del dualismo bene-male. Mentre ci passavo vicino, ho sentito un dialogo tra un padre già nonno, e sua figlia incinta: "sento nettamente il desiderio di entrarvi, fare su una canna, fumarla, vedere se qualcuno se ne accorgerebbe, e cosa  farebbe: insomma, vere l'effetto che fa. Ma ci vuole un'età, una voglia di provocare, la materia prima, che proprio non possiedo; e tu non mi perdoneresti mai, vero?". La figlia-mamma guarda il padre-nonno con severità, e tace.
Nei bagni, coda. La signora delle pulizie sta passando lo straccio sul pavimento già lindo. Una volta entrato nei cinque metri quadri pulitissimi e profumati di detergente alla spuma di mare del nord, sulla destra, il seggiolino dotato di cinture di sicurezza ove appoggiare il bimbo, qualora il moderno padre del nord (est) portasse con sé il suo pargolo, mentre si libera di incombenze biologiche. Sensazione estatica all'interno di un cesso: sentirsi liberi dalla psicosi da pedofilo che pregiudica la naturalezza del gesto affettivo. Esco, mi lavo le mani, accanto a me un padre italiano consiglia al figlio di colore di essere sempre se stesso.
Ora tocca al piano terra.
Casalinghi, tendaggi, tappeti, quadri, candele, mobili da bagno.
E poi il magazzino dei mobili smontati: infinite scaffalature, alte almeno due piani, ordinate secondo codici e nomi con accenti circonflessi dai tratti prosodici, dalla lunghezza lungimirante.
Pago la mercanzia con carta di credito, consapevole della crescita futuribile del mio debito, ma sto al gioco moderno con equilibrio da artista fallito.
Ultima tappa, lo shop delle delizie svedesi. Mentre mi aggiro tra versioni psichedeliche di colesterolo in bella confezione, scoppia una lite.
Una signora con bimbo e marito, litiga furiosamente con un marito con figlio e moglie, in quanto quest'ultimo avrebbe pensato a voce alta parole volgari, che la signora ha creduto le fossero rivolte contro. Sguardi tesi, volti arrossati, imbarazzo generale, occhiate giudicanti.
La natura compressa all'interno di uno spazio chiuso, fuoriesce come schiuma dalle bocche, dalle orecchie, dalle narici, da ogni orifizio: il corpo si esprime così, per tumulto, se lo si ignora.
In parcheggio pare di riconquistare la libertà di salire in auto e infilarsi nel traffico del centro commerciale.
La musica di Antony s'infila nelle pieghe più recondite con delicatezza, accogliendo, finalmente, la sera.

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