lunedì 15 ottobre 2012


Il tema della biennale di architettura quest'anno è " common groud": si può tradurre come "terreno comune-punto d'incontro".
Questa è la mia prima biennale architettura, e anche con la guida; le molte altre volte in cui ero andato, ero andato da solo, o con amici, e senza nozioni di causa, come uno che esplora un territorio sconosciuto, fidandosi del proprio istinto. Mi era stato detto che, pur essendo a digiuno di architettura, visitare la mostra sarebbe risultato meno ostico di quanto non sia quella d'arte: confesso che sono d'accordo, che questa affermazione mi convince, pur tenendomi uno spazio di riserve piccolo piccolo, in cui posso sempre contraddirmi, e dire che non sono d'accordo col mio essere d'accordo.
Il punto è che si può teorizzare qualsiasi cosa, si può sostenere qualunque ragionamento, produrvi qualcosa di materiale, spiegarlo, girarci intorno, approfondire; il punto è che si può dire una cosa, poi dire il suo contrario e dare ragione ad entrambe, purché siano dette, scritte, spiegate bene. Questa mostra ospita architetti che non la pensano allo stesso modo, eppure risultano convincenti, bravi, affascinanti.
Non so se si tratti di pluralità, di democrazia, di differenti livelli di sapere, fatto sta che io concordo con quasi tutte le teorie; fatto sta che mentre prendevo appunti, pensavo alla vicinanza tra letteratura e architettura, e mi chiedevo quali di queste sia più idonea, e quale più efficace, a spiegare l'esistente.

Ma procedo scrivendo gli appunti.
S'inizia con un bel progetto in cui si confrontano diverse esigenze: quelle del veneziano cittadino e quelle del turista tipo. Si parla di mappe mentali, di percorsi di cittadino che evita la folla, e perciò il turismo di massa, e lo si propone al turista. Prendendo 20000000 di turisti, dividendoli per 365, viene una cifra vicina a 75000. Se questi seguissero i tragitti segreti dei veneziani, ci sarebbero più turisti che abitanti, in quei percorsi. I veneziani, così, farebbero i percorsi turistici?

Altro padiglione: costruire in continuità con la storia. Quindi, tradizione, mi dico. Poi ripenso alle nostre città, anzi, a tutte le città, e mi dico che la teoria e la pratica sono, per quanto riguarda la gestione della cosa pubblica, in guerra da secoli.

Altro teorico che non va tanto d'accordo con il precedente: mischiare il moderno con l'esistente; poi duplice valenza interno-esterno; poi chi pensa che sia un diritto, e forse un dovere, copiare quel che già c'è e aggiungervi del proprio; poi chi sostiene che l'architettura può cambiare la storia, a patto che lo si faccia unendo gli sforzi; chi mette in evidenza la funzione spirituale dell'architettura; chi pensa alla dimensione interno-interiore-esterno ( corpo-mente-anima?); chi presta massima attenzione alla luminosità, al gioco di luci interno-esterno; chi dice che non è vero che sia lo sky-line delle città, ma la sua prospettiva e dimensione a partire dalla strada, da quel che vede l'uomo da questa visuale  quotidiana, a fornire non tanto una descrizione, quanto una "scrittura" dei luoghi in cui viviamo; e poi l'architetta- in realtà si dovrebbe dire architetto: maschilisti!- che cerca di superare i limiti fisici della materia e della forma, creando strutture sinusoidali, strane, fantascientifiche( ricordo le molte letture riguardanti la meditazione e il concetto di "oltre"); e poi la prova concreta, materica, di una collaborazione transnazionale di diversi architetti che hanno costruito un archetipo di casa con materiali dell'India e Italia; e ancora il racconto del grattacielo a Caracas e dell'occupazione di questo da parte di poveri, la capacità di costruire una microsocietà altra al suo interno, rendendolo vivace e vivente( il pensiero ai fantasmi di Aira); e chi dice che l'architettura non è arte, ma la può contenere, costruendo musei, teatri, ecc.; e infine l'interazione tra architettura e natura.
Poi abbiamo bighellonato e visitato il bellissimo padiglione russo sulle città invisibili, l'americano coi micro progetti urbani spontanei, quello serbo, dove a rappresentare il common ground un tavolo bianco enorme a testimonianza della socializzazione atavica, israeliano, francese, ungherese, coreano.

Cosa mi rimane? Innanzitutto una stanchezza micidiale, quasi a sottolineare la fatica fisica e intellettiva che la biennale chiede come minimo, in quanto consapevole di trasmettere così tante suggestioni. Poi che, come in tutti gli ambiti, in special modo intellettuali, ma comunque genericamente umani, ci sono molte idee, teorie, spesso contraddittorie, e per fortuna.
E concludo con una battuta: l'unico common ground che ho personalmente riscontrato tra gli architetti, è quello di vestirsi tutti diversamente uguali.

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