sabato 29 settembre 2012

Equitalia, i giocatori, i politici e le donnine mezze nude



A equitalia arrivi con la pancia che ti fa un po' male ma non troppo. Sai che sta per succedere qualcosa alla tua vita, ma non sai fino a che punto penetrerà. Si fermerà in superficie, oltrepasserà la carne, affonderà nelle viscere fino a squarciare gli organi interni?
Non lo sai; quel che sai è che il denaro non ti importava fino a che riuscivi comunque a vivere, a cavartela, a farcela, a viaggiare un po', a comparti libri, qualche cd, pagarti mutuo e bollette, e che gli altri si fottano: il denaro ha un costo evidente: ti forte la vita, ti ruba la creatività, si trasforma in ossessione e, di questi tempi, in vergogna.
L'atrio è blu e bianco, tutto pulito, lucidato, asettico. Chissà se si sposa col sangue delle ferite inferte da questi sicari senza cattiveria. I posti degli impiegati: una scrivania, computer, sedia: postazione tipica, senza niente di particolare. È anche loro sono buoni, facce che sincere, da vicino di casa con cui scambiare due chiacchiere sulle partite, sul tempo che fa, sull'andamento scolastico dei figli.

A Madrid intanto la folla invade il centro: protesta contro il governo. Lo faceva con Zapatero, lo fa con Rajoi: non è più questione ideologica, ma di sopravvivenza. In Europa non ci si autodistrugge in modo eclatante e feroce: lo si fa un po' alla volta, erodendo le esistenze in modo sistematico, ma intimo, ben educato.
In Siria invece continua la mattanza plateale, coreografica, cosicché si possa costruire una ragion d'essere logica, ordinata, pertinente. Basterebbe convincere le due superpotenze che hanno interessi diretti a barattare l'intervento, magari concedendo qualche esilio dorato al dittatore che somiglia a Fazio, in cambio di. Non importa quanto costerà, quanti morti civili; è più importante il braccio di ferro istituzionale e imprenditoriale, la geopolitica, ecc.

In settimana poi si è parlato di regioni, di consiglieri infami che spenderebbero i soldi pubblici per bagordi privati. Molti si indignano, sputano odio; altri dicono di questo o di quello che sono brave persone, disponibili, che hanno trovato lavoro ai loro figli. È sottinteso che un potente sia un figlio di troia, secondo la logica che chi ha l'occasione, magna. Si sa, è così, è ineluttabile.
Poi tutti si dicono schifati della Minetti, che pare che per un compenso incredibile, mostra tutte e culo ad una sfilata di una marca di costumi da bagno.
Una che fa tivù e che guadagna più di cinquemila euro al giorno senza avere meriti particolari, e forse nemmeno nascosti, o reconditi, o inconsci, ha il cattivo gusto di indignarsi di qualcun'altra.
Poi penso ai giocatori che guadagnano milioni di euro ( un esempio a caso: Buffon. 6 milioni all'anno, che diviso 12 mesi fa 500 mila euro al mese, che diviso 30, fa 16666,6 euro al giorno), e mi dico che la morale è una questione di marketing, e che la sua potenza non è mai stata tanto debole come adesso.

Quando parli con gli impiegati di equitalia, che consultando il terminale formalizzano la tua futura schiavitù, con lunghi anni di debiti rateizzati, per debiti che non hai pagato perché non potevi farlo, in quanto non avevi i soldi, tutti questi pensieri si sommano, si solidificano, ti schiacciano il petto, e ti pare di non riuscire a respirare. Ma soprattutto, a mente calda, ti pare che se la vita aveva un sapore amarognolo-ma che con i sacrifici avrebbe un giorno assunto più dolcezza, quasi quasi, anche, con qualche punta di felicità, o magari anche solo piccole soddisfazioni-, ora sia diventata indigeribile, tossica.
Era da tanto che non provavi una sensazione fisica direttamente collegata a quella emotiva. Sentivi un gran caldo, hai iniziato a sudare, a sentire le gocce che cadevano dalla fronte, a immaginare il tuo futuro, e vedevi solo nero.
Sei uscito, hai camminato a piedi percorrendo mezza città a piedi: non sai quanti chilometri, ma tanti. Hai fatto delle telefonate, hai provato a sentirti normale, come al solito. Chiamavi chi ti doveva dei soldi, ma non rispondevano. Venivi chiamato ma rispondevi solo a numeri di famiglia, e poi neanche a quelli.
Sei arrivato in capannone. Il silenzio era devastante: ti lamentavi sempre del rumore, dicevi che saresti diventato sordo. Ma adesso, nessuna macchina in funzione, tutto fermo, immobile. Sei andato verso la zona attrezzi, tutta in ordine come al solito. Hai notato che c'era della polvere sul computer che verificava l'efficienza meccanica delle auto che venivano a fare la revisione. Non c'era mai stata polvere perché ogni sera, dopo l'uso, pulivi tutto. Ma ormai non ti serviva più; non la usavi da un mese, dopo il fermo amministrativo provvisorio.
Hai fatto le scale di ferro, raggiunto l'ufficio vuoto.
Hai aperto la cassaforte dietro al cartellone pubblicitario della Fiat, hai tirato fuori la pistola.
Hai aperto la bocca, chiuso gli occhi, pensato a Ronaldo, ai giocatori di golf, ai tuoi figli.
Hai premuto il grilletto.

giovedì 20 settembre 2012

Crisi immobiliare ed esistenziale


In questi giorni, a causa di un - speriamo- imminente ritorno a Mestre, ho girato parecchio in città. Da più di sei anni abito in provincia, e non ne posso più di fare il pendolare; non ne posso più nemmeno di abitare in un quartierino di una cittadina pulitina, perbenino, dove tutti hanno la macchinina bellina, i rapporti sono mutuati dall'apparenza; e soprattutto, dove tutto ciò, caricaturale fino al parossismo, è vissuto come normale, anzichenò. In sostanza, i rapporti sociali sono normati da una tacita leggerezza inventata.

Dopo sei anni, mi ritrovo a battere la città dal basso, con l'osservazione lenta e vorace di chi ha bisogno di capire cosa sia diventata, quali zone siano integre e quali degradate, cosa nascondano le case, i condomini: chi ci sia dietro le finestre, chi abita il cuore domestico e intimo di una città che non è più mia.
La crisi,- di cui bisognerebbe parlare a parte, con serietà, con dati statistici, penetrando i fenomeni per cercare di capire quanto hanno inciso nelle nostre esistenze ed abitudini consumistiche-, ha comunque  modificato in modo netto il mercato immobiliare, con effetti visibili sui rapporti sociali.
La sensazione da osservatore, certo non da immobiliarista, è quella di trovarsi dinnanzi a un brusco e tardivo risveglio, come se la bolla speculativa che ci ha afflitti e condizionati, scoppiando, ci abbia resi incapaci di reagire emotivamente, come colpendo a tradimento. Piccoli lutti, micro traumi, sbigottimento, segnano umori e pensieri.
Il bene rifugio per eccellenza, in Italia, è diventato insicuro, incerto.

Io stesso, e anzi, forse la pretesa di essere osservatore nasconde in fondo il ruolo di vittima, che detesto, ma che in questo caso incarno, pur non sapendo fino a che punto, sono spiazzato, sgomento, incredulo.
Sei anni fa ho comprato casa, nuova e bella con vetro camera e cappotto esterno e travi a vista e doppi servizi e comodo garage indebitandomi con le merda-banche con un mutuo accidenti a me, e ora per rivendere ci devo rimettere, porca!

Ma non solo la crisi: si tratta di qualcosa di più profondo, di vitale, di sociale. Mi pare di cogliere sempre più la fatica, il bisogno di rifugiarsi dalla vita, dai rapporti, dalle dinamiche relazionali che , invece di risorsa, sono diventate un peso, un dramma emotivo.
Mestre, città di provincia, periferia di Venezia che scintilla di giorno e muore di notte, spalla un pò borghese della proletaria marghera, da città vivace, pare trasformata in purgatorio, in duplice  guardiana, o forse portinaia: da una parte Venezia, dall'altra il nord est.

Chissà se la crisi, con le ferite aperte che lascerà, ci farà tornare ad essere umani, sociali, vivi, con meno paura, perché avremo tutti un po' meno da perdere, e tutto da ricostruire.

mercoledì 12 settembre 2012

Una fiammella galleggiante che va incontro alla sera

L'altra sera, come spesso mi accade d'estate- e come da qualche anno, in queste interminabili estati tropicali, anche a settembre-, sono andato in spiaggia. Dico sera, ma in realtà si tratta di tardo pomeriggio: il mio orario preferito: 17-17.30/19.30-20.
Amo queste ore per diverse ragioni, non ultima che la gente un po' alla volta se ne va, e io rimango, assieme a pochi altri, a godere il tramonto, la quiete, quel senso di intimità, che a volte si percepisce a contatto con gli elementi basici- la natura, l'ambiente?-.
La lettura di un libro- iniziato "l'amante di Lady Chatterley"-, una bottiglietta d'acqua, l'attesa che il costume s'asciughi dopo il bagno, l'osservazione distratta della gente, qualche pensiero, il riposo. Di solito ci vado da solo, mai che senta la solitudine: il senso di intimità di cui dicevo, lo si può vivere- questo, perlomeno, vale per me- solo nell'incontro tra silenzi; in un territorio non verbale, dove il mescolarsi degli elementi non ha scopo, fine, interesse.
Erano ormai le 19, il sole calava piano dietro la pineta, il mare iniziava ad assumere un colore argenteo, l'orizzonte si evidenziava con una linea retta, netta.
Accanto a me passavano una ragazza tedesca claudicante, espressione che rivela un deficit, cosce grosse, gambe rigide, costume intero blu, e una signora che, immagino, fosse la madre.
Si avvicinano alla diga circondata da scogli,; la signora si toglie la lunga maglia di cotone appoggiandola ordinatamente su un grosso masso, rimanendo in costume due pezzi. La figlia l'aspetta con la sua postura incerta, pochi passi dietro. Al collo la signora ha una borsetta, o forse un marsupio di colore nero. Si volta, raggiunge la figlia, la tiene per mano e insieme entrano in acqua fino a raggiungere l'altezza sopra il ginocchio.
La madre apre la borsetta, estrae un oggetto nero e un accendino; li passa alla figlia, la quale a fatica tenta di accendere la fiamma dell'accendino, e una volta riuscita, prova ad avvicinare la fiamma all'oggetto. Nel farlo si scompone, mettendo in forse il suo equilibrio posturale, come se, ad ogni mossa, corrispondesse un sussulto. La madre nel frattempo le si è spostata dietro, sorreggendola ai fianchi. La ragazza riesce nell'intento, s'abbassa legnosa fino a pelo d'acqua e appoggia quello che la mia scarsa vista da lontano, riconosce come una sorta di lumino galleggiante.
Vedendole, s'intuisce una metodicità, un'abitudine consolidata nel ripetere quei gesti.
La fiammella galleggia, s'allontana da loro. La madre e la figlia guardano il lento movimento di quella fiamma ed entrambe hanno assunto un'espressione estatica e triste insieme. La madre le parla piano, le indica l'orizzonte, ora più evidente, vista l'ora; oppure la sagoma di una barca a vela lontana, o il cielo che sta per colorarsi di rosso e di scuro.
Stanno lì dieci minuti.
Poi tornano verso gli scogli, la madre indossa la maglia, e se ne vanno.
Nel frattempo mi ero fermato ad osservarle, incantato, emozionato, fantasticando ragioni, attribuendo omaggi e ricordi a persone scomparse, salutate da una fiammella in mare.
Me ne vado anch'io, incontro alla sera.

martedì 11 settembre 2012

Home Treviso, teatro degli orrori, afterhours

Sabato sera al festival "home" di Treviso.
Ho visto tre concerti, e mentre arrivavo a piedi dal parcheggio, distante un paio di chilometri dal posto, ho sentito il finale di Eva - ex Prozac+-. I tre concerti: teatro degli orrori, the bastard sons of Dioniso, afterhours.
Un elemento che mi pare significativo, anche rispetto a quello che scriverò dopo, è che Manuel e Pierpaolo hanno superato i quaranta - siamo più o meno coetanei -; sono entrambi artisti dall'alto tasso di energia spesa ad ogni esibizione, come se l'età e la possibilità di produrre potenza, fossero elementi a sé stanti.

Il teatro degli orrori è un gruppo che non seguo. È uscito troppo tardi rispetto alla mia capacità di essere elastico e capace di assorbire le novità musicali. Sono aggrappato alle mie certezze, disponibile ad aprire porte e finestre, e far accomodare gli sconosciuti, abbastanza limitata. Non leggo riviste, come facevo un tempo; non sono più ricettivo, come un tempo; ci vuole un bel po' prima di lasciarmi a bocca aperta dallo stupore.
L'ultimo a riuscire nell'impresa, qualche anno fa, è stato Antony: dopo di lui, ma anche prima, solo conferme, o al massimo qualche smorfia passeggera.
Per molti anni la musica, in particolare rock, è stata la mia grande bruciante passione.
Da molti a questa parte, la musica accompagna la lettura e la scrittura, che l'hanno definitivamente rimpiazzata in termini di attenzione e interesse.
Va da sé che il mio intento di unirle attraverso i reading, non sono altro che un'operazione aritmetica; per la precisione, un'addizione.
Insomma, Capovilla è senz'altro un uomo da palcoscenico. Senza dubbio ha il gusto della mescolanza di generi, e i suoi concerti sono molto teatrali. La sua proposta è pesante, difficile, ambiziosa: gli interessa il contenuto, e vedere migliaia di ragazzi che lo ascoltano, lo ballano, lo cantano, è sorprendente.
Eppure non mi convince appieno: non riesco a sintonizzarmi pienamente in alcun ambito. Non totalmente nel fottutissimo rock'n'roll, non sul piano dei contenuti. Ma capisco che dipende da me, non certo da loro.

Ed eccoci al punto, alla ragione per cui sono andato a Treviso: gli afterhours.
In borsa ho una copia del libro: mi sono fatto l'idea che "padania" e " homo sapiens nord est" siano una sorta di segno del destino. Missione: consegna del libro a Manuel Agnelli.
Nel frattempo, mi godo il concerto.
È un concerto durissimo, tirato; un brano dietro l'altro, un delirio di suoni e di urla. La cosa che mi passa per la testa, è: ma che diavolo vuol dire Agnelli?
Alterna pezzi e nuovi e vecchi - questi in versione "hard core"-. Il pubblico è spiazzato, e canta soprattutto i vecchi brani.
Dove vuole infilarsi? Nel cuore, nella carne, nell'inconscio? Cosa ci sta dicendo? Che siamo tutti disperati, che dobbiamo liberarci del peso delle nostre esistenze, urlandole fuori? Perché rifiuta scientemente ogni possibilità estetica?
Penso che una simile esibizione andrebbe bene in un club, con un pubblico ridotto, consapevole; che se vuole proporre arte moderna in forma di canzone, farlo  all'aperto, con migliaia di persone abituate a cantare il vecchio repertorio, non è il migliore dei modi.
Ma questo è quello che penso io, che non sono abituato a pensare lo show in forma di business.

A fine concerto mi sono avvicinato al ragazzo del mixer e gli ho dato il libro.
Ci ho scritto dentro " mi pare ci siano analogie", e ho aggiunto la mail.
Chissà se gli verrà dato, chissà se lo leggerà, chissà se gli piacerà.
Chissà se riscontrerà le analogie di cui sopra.


sabato 8 settembre 2012

Replica al marinoni, con poesia, resistenza, sospensione spazio-temporale

Replica al Marinoni

Incerto tra cronaca fedele, o in formato sensoriale, opto per la via di mezzo, come i saggi. Poiché non lo sono, saggio, non so cosa ne verrà: vedremo.
Rispetto all'altra volta, una serata solo per noi, questa volta era un coacervo artistico; non privo di difetti, compensati però da una sensazione di appartenenza e condivisione d'intenti.
Il tema della serata era di tipo ecologista e, avendolo saputo solo all'ultimo, non avevamo preparato niente. Ho comunque rimediato, come dirò in seguito, ma.

Per chi non è pratico di Venezia, è un po' difficile immaginare una città formata da più città - il centro storico, la terraferma, la zona industriale, le isole -: in sostanza si tratta di un agglomerato urbano complesso, di acqua e di terra, vastissimo, ma con gli abitanti di una città media.
I punti più distanti tra loro, anche all'interno dei confini comunali, può comportare spostamenti anche superiori a quelli di metropoli ben più popolose.
Raggiungere il Lido, comporta interiorizzare un viaggio. Arrivare all'isola nei giorni del festival del cinema e girare, in fondo al gran viale, a sinistra invece che a destra, ha il retrogusto eroico di chi va consapevolmente controcorrente. Dopo qualche centinaio di metri, la prima sorpresa: non si accede più dalla vecchia entrata, ma da una nuova via che passa per la spiaggia.
Il titolo del ciclo è "i'm possible festival" ,
evocativo e funzionale, passibile di diverse interpretazioni.
Procediamo guidati dalle candele, camminando sulla sabbia, raggiungendo il teatro da dietro. L'impatto è suggestivo: il mare- il mio adorato mare-, rumoreggia al pochi metri, e profuma l'aria di salsedine. Lo spazio antistante, ex retro, è stavolta riempito in parte da un bancone con cucina mobile e da alcune panche, stile sagra paesana. Entriamo e salutiamo, piacevolmente sorpresi di trovare qualche decina di persone: il tempo non prometteva niente di buono, e si temeva, nei giorni scorsi, potesse essere un disincentivo.
Appena seduto, mentre il primo poeta mattatore dice la sua, mi sento battere la spalla: la prima sorpresa. Il mitico blogger, terrore delle folle letterarie, Lucio Angelini, versione abbronzata e senza baffo.
La serata prevede il seguente programma:
Incontro delle varie associazioni con finalità ecologiste;
Sfilata di otto poeti, tema degrado ambientale;
L'attore Cesare Colonnese;
Noi - super market nord est-;
Un mimo;
Musica a go go.

La sfilata dei poeti è rognosa da raccontare. Lo è in quanto la poesia, e i poeti, si espongono giocoforza a giudizi che non sempre corrispondono al loro reale valore. La poesia mi attrae e respinge insieme, e il mio metro di giudizio è poco razionale. Un caso su tutti, sperando renda giustizia: Zanzotto. Ho letto un paio di suoi libri, mi sono concentrato, cercando di capire fino in fondo i suoi versi, ma niente: mi sono inaccessibili. Eppure, mi hanno lasciato un segno, forse soprattutto il poeta, che non potrò dimenticare. Mi capita così anche con l'arte; spesso non riesco a coglierne fino in fondo il significato, ma mi scombina comunque.
Insomma sto girando intorno alla questione: ci sono bravi poeti e buone poesie, ma sono pochi. Molti ci provano, con risultati altalenanti, tendenti al brutto.
C'era però, in grande evidenza, un bisogno, una voglia di condividere, di stare insieme, di sentirsi meno soli- c'è gente al mondo più sola dei poeti?-.
C'era a tal punto, che il ritardo iniziale è stato incrementato, fino a stravolgere la scaletta. Uno dei poeti, in evidente stato di euforia da calore umano, non avrebbe voluto smettere più, ed è stato solo grazie a E, una delle organizzatrici dell'iniziativa - che si è presa ferie per star dietro all'evento, e che da quattro giorni dormiva a teatro, dandosi il cambio con V e altri ( va ricordato, a tal proposito, che si tratta di una struttura tendente al fatiscente: non dorme certo nei camerini della Fenice)-, che si è riusciti a fermare il suo entusiasmo, e a fargli capire che, nonostante questo, era già molto tardi e c'erano ancora altre iniziative dopo la loro.
È salito sul palco Colonnese, attore che si esprime in dialetto veneziano, per una mezz'oretta ci fa ridere un riso amaro, scoprendo le piccole miserie da cui scaturisce il degrado civile; questo non è mai eclatante, o almeno non all'origine: si manifesta poco alla volta, figlio degenere di atteggiamenti lascivi, di menefreghismo diffuso, ecc.

Poi tocca a noi.
Saliamo sul palco col tecnico che in dieci minuti ci sistema l'amplificazione.
Microfono, chitarra, computer, che passano per un mixer e corrono verso le casse, le quali riempiono la sala di noi.
Presento il nostro lavoro brevemente, che non c'è più tempo, consumato dalla poesia. Non essendo preparati sull'argomento della serata, dico che i due brani che leggeremo - ne avevamo preparati tre, ma -, rappresentano in qualche modo i sintomi dovuti ad una vita in cui l'ecologia mentale, è esclusa.
La mezz'ora vola. Chi ha provato a salire su un palco, davanti a persone attente,sa cosa intendo; chi no, è più o meno una cosa che ha a che fare con la sospensione temporale di tempo e spazio: qualcosa di simile, seppur diverso, a quando si fa l'amore, oppure si medita, o si corre o si balla o si legge o si scrive: insomma, quando si è totalmente immersi in una qualsiasi attività che conceda alla mente, non il comando, ma la sua funzione di organo utile a svolgere il suo compito.

Subito dopo, di solito, arriva una stanchezza felice, come quando si ha il down di adrenalina, e un leggero torpore s'impossessa di noi.

Poi c'era il mimo-attore.
Poi i saluti.
Poi la notte, il ritorno.
Poi la vita con la sua crudezza e la sua meraviglia.

lunedì 3 settembre 2012

Suburbio nord est

Passato il caldo infame, riprendo la bici.
Tra le varie possibilità: itinerari lungo il fiume, quando ho ripreso fiato e allenato i muscoli; in alternativa, le stradine che costeggiano i campi, per quando riprendo lentamente a correre.
Oggi ho optato per questa seconda scelta.
Sono salito lungo l'argine e via. Ho corso un po', e poi sono sceso. Cercavo di dare ritmo al respiro, accorciatosi in quest'estate torrida. Ho fatto strade interne per alcuni chilometri, sfondando grumi di insetti da uva, andando controvento, che è come andare in salita. Attorno il bellissimo paesaggio della campagna veneta. In particolare, campi di pannocchie, di soia, vigneti.
I primi due, arsi dal sole, paiono moribondi. Sembra che non si riuscirà a recuperare il raccolto: non ha piovuto per mesi, e i rovesci di questi giorni, non riusciranno a recuperare ciò che è già andato perso. Mi impressionava  molto sentire il rumore del vento sul granturco: era un rumore secco, quasi croccante; le punte erano tutte nere, evidentemente bruciate dal sole.

Dopo mezz'ora, gambe e fiato erano finiti. Ho perciò deciso di tagliare per un quartiere nuovo che mi consentiva di tornare a casa in dieci minuti, per non forzare troppo.
Sono passato in mezzo al nuovo quartiere residenziale, una distesa di case che si vanno ad aggiungere agli altri quartieri nuovi, con cui formano ormai una suburbia a nord est, di stile americano.
Mi fa impressione vedere queste case, quasi tutte villette, biville, ville a schiera, condomini di dimensioni contenute. Qualche anno fa, quando ancora la crisi si nascondeva dentro alla bolla speculativa, e tutto sembrava possibile e infinito, a nord est si è costruito a raffica. Molti terreni sono diventati edificabili grazie ai nuovi equilibri politici: concessioni in cambio di voti, vecchia storia lunga decenni di orrori politici.
Ma al di là di questo, quello che mi colpisce, è l'ambizione estetica, l'idea di identificazione sociale attraverso l'esibizione della propria casetta, del giardinetto, della proprietà. E non importa se si vive con l'antifurto acceso 24 su 24, se si vive col terrore che qualcuno ci porti via quel che è nostro, una volta finito di pagare il mutuo ventennale alla banca.
Con la città metropolitana, enorme per dimensione, ridicola per numero di abitanti, il modello "si lavora in centro, si abita fuori città", diventerà ancor più consuetudine, apparendo normalità.
Centro storico è lavoro, la terraferma per gli immigrati, la suburbia per la nuova piccola borghesia indebitata.

Se si gira di sera per questi quartieri, non si vede nessuno. L'unica testimonianza di vita, il bagliore delle tivù e il pulsare degli antifurti.
Mi chiedo mentre pedalo senza più energia, perché sia qui, e cosa mi differenzia dal popolo suburbano.
Nessuna differenza, mi dico. Forse solo la superbia di chi giudica. Forse la voglia di vendere- ci sto provando da due anni, ma niente- e tornare in città, dove la vita puzza un po' di più, ma somiglia ad un'esistenza concreta.

domenica 2 settembre 2012

Mormoni, finanza, popoli scemi

Leggevo la prefazione del libro dei Mormoni. Riassumendo alla carlona, il loro profeta riceve nel 1823, in un'apparizione di un angelo che illuminava la stanza, durante la quale il figlio di uno che aveva completato l'opera paterna, scritta su tavole d'oro su commissione di Gesù Cristo, gli rivela dove sarebbe nascosto  un nuovo libro sacro. Oltre al profeta, altre 11 persone avevano potuto essere testimoni dell'esistenza delle tavole stesse, le quali spiegavano come bisogna vivere, per vivere bene.
Dopo la prefazione mi sono fermato, con un pensiero.
Mi dicevo: non siamo in epoca di parabole, di profezie, di profeti. Non siamo dinnanzi a situazioni sociali tali per cui si possa credere ad una simile visione, senza rischiare un ricovero in psichiatria.
Eppure il candidato dei repubblicani, oltre a professare questa religione, è uno che si è arricchito facendo soldi con la finanza. Quella finanza che ha generato la crisi, che si è arricchita immensamente finché c'era da guadagnare, che si è fatta pagare i debiti quando la crisi è scoppiata in tutta la sua pornografica evidenza.
Ebbene, questo signore, che crede alle apparizioni e che specula con la finanza, è candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
Pensavo che noi italiani fossimo i più scemi: già con Putin avevo capito che evidentemente mi sbagliavo. Ora ne ho la certezza.

sabato 1 settembre 2012

Corea di Huntington, pendolari, pedalando controvento in una sera di fine agosto a nord est

Ieri sera nel treno dei pendolari c'era un signore affetto da Corea di Huntington. Lo affermo con certezza perché nella mia vita professionale ho incontrato un caso, e quando ne incontri uno, non lo puoi più dimenticare.
Per chi non la conoscesse, può sempre andare a leggersi qualcosa anche su wikipedia.
Si tratta di una malattia terribile, tanto più perché impossibile a non manifestarsi in modo plateale, e che perciò espone il malato ad un'ulteriore recrudescenza estetica.
In sostanza si tratta di una serie di movimenti involontari molto accentuati, incontrollati, che hanno l'ampiezza di tutto l'arto, che riducono la persona ad una sorta di danza ridicola e pietosa. Quando cammina, per fare un esempio che si può a malapena avvicinare, bisognerebbe immaginare un ballerino di hip hop terribilmente ubriaco, che però insistesse nell'esibizione. Ma non finisce qui. Ci sono anche compromissioni a livello psichiatrico: irritabilità, cadute depressive, violente manifestazioni di rabbia furiosa senza apparente motivo. A dirla tutta, i motivi ci sono eccome. Ricordo il ragazzo che avevo conosciuto anni fa: la sua incazza tura era terribile, e ti credo: viveva da solo fino a un certo punto della malattia, quando all'esordio riesci ancora a cavartela un poco. Faticava ad alzarsi da letto, non riusciva a prepararsi un caffè, per mettersi le scarpe un incubo, e via discorrendo.

Il signore del treno teneva gli occhi chiusi e per una trentina di secondi sembrava assopito. All'improvviso riprendeva con un movimento involontario delle dita, si dava pacche in testa, le gambe partivano in ogni dove, sbavava. Il tutto senza armonia. Alcuni passeggeri salivano e non gli pareva vero di trovare un posto libero a Mestre, di sera, fine settimana: un colpo di culo! Poi mentre posavano il bagagliaio, passati quei pochi secondi di tregua, lui iniziava di nuovo con le movenze ridicole e tragiche, facendo desistere i passeggeri.
Ad un certo punto un turista con una valigia enorme gli si è seduto accanto, e un bengalese addirittura di fronte, prendendosi qualche calcio involontario, con stoica indifferenza. La bambina seduta in braccio alla madre, davanti a me, lo guardavano con penosa curiosità, alternando sguardi di condivisione dello spettacolo assurdo con me.
Quando è sceso, alternando gridolini acuti e profondità cavernose, si prendeva un sacco di parole dalla moglie, la quale esasperata, carezzava il cagnolino che teneva in braccio, incitando quello che un tempo era suo marito, e adesso soltanto una persona da cui stare il più lontano possibile per non soccombere.

Delle molte storie che ho incontrato, davvero tante, spesso incredibili, cruente, crudeli, ho sempre concesso spazio alla possibilità di riscatto.
In questo caso, solo alla compassione e al mistero.

Tornando verso casa in bicicletta, pioggia e vento in direzione contraria, sancivano la fine dell'afa, forse dell'estate. Pedalavo spingendo con vigore, bagnandomi totalmente già dopo un minuto, sentendo il freddo, il fiato che chiedeva ossigeno, i muscoli che lottavano. Felice di essere corpo, spirito, pensiero, sentimento, compattamente coesi, vigili, complici, di andare controvento in una sera di fine agosto, a nord est.