martedì 31 luglio 2012

Sogni amniotici di mezza estate

Davanti al mare, seduto, tardo pomeriggio, guardo e ascolto.
Sembra tutto, sempre, uno stesso moto perpetuo, un eterno su e giù.
Sto così un minuto, cinque, dieci.
Rilasso le spalle, che mi accorgo essere tese.
In posizione a gambe incrociate, sciolgo il più possibile i muscoli.

Seduto così a gambe incrociate, ho come l'impressione di sentire sulla nuca il peso leggero dello sguardo degli altri. In un leggero momento di follia transitoria, che accolgo invece di cacciare, immagino un dialogo con i mandanti di quegli sguardi che forse non esistono nemmeno.
“cosa sta facendo così, che stia impazzendo, che stia piangendo, che stia così per posa?”
“sto nullando, sto nientendo”, risponderei loro.
“e dovreste provarci, qualche volta”, aggiungerei.
“sapeste quanto sia ricco questo apparente nulla immutabile, questo rumore di onde, questa schiuma, quest’orizzonte, questa bellezza evidente eppure mesta, disinteressata all’esibizione”, direi, se avessi voglia di parlare.
E invece taccio.
E ristoro la mente, quieto i pensieri, smusso gli angoli, tradisco la fretta, aborrisco l’inutilità, sposo e bacio e lecco l’essenza.

Poi m’alzo.
Lo faccio quando m’accorgo che quella gioia sta per diventare posa.
Quando l’orgoglio di saper talvolta vedere e sentire, diventa orgoglio.
L’ego non dà tregua.
E mi riporta al sonno delle abitudini.
Sono stato bene con me.
Quando mi sono dimenticato di me, e sono stato in uno stato ignoto e amico.

Raggiungo a passi calmi l'acqua, sento il contrasto del freddo sui piedi accaldati dal sole. Avanzo a passi regolari mentre mi bagno gradualmente la gambe. Ad altezza inguine mi immergo con uno slancio in avanti. L'impatto è piacevole, come fosse un ritorno alle origini, ormai dimenticate, causa inutili occupazioni quotidiane.
Nuoto alternando gli stili, cercando di mantenere uno stile rigoroso ma rilassato.
Raggiungo il largo forzando fiato e muscoli. Ora sono solo, abbastanza distante dalla riva. Il vociare continuo viene sostituito da un brusio lontano, indistinguibile.
Mi metto in posizione del morto: viso in su, braccia e gambe allargate, come l'uomo vitruviano. Gli orecchi sott'acqua condizionano l'udito rendendo ogni rumore sordo, filtrato. Lentamente un onomatopeico blo blo blo mi rilassa, chiudo gli occhi, la presenza lucente del sole s'affievolisce, fino a sparire.
Sento la presenza sovrannaturale di mia madre: oggi sarebbe il suo compleanno.

Sono un cosino grande così. Un esserino che galleggia nel liquido amniotico, che fa le capriole, riposa; è nell'ambiente più perfetto che si riesca ad immaginare: una sorta di paradiso acquatico. Fa buio, ma non c'è il rammarico della mancanza di luce. S'intravede la curva del ventre materno, la sua rotondità sinuosa, la sua dilatazione naturale. Il silenzio è perfetto, interrotto solo da qualche eco lontana. Il tempo è un concetto inutile, un frammento, un particolare ininfluente di questa umida eternità.
Improvvisamente una sorta di gorgo mi attira, mi pone in verticale, a testa in giù.
Il liquido fuoriesce nella stessa direzione verso cui sono attratto, da una forza sovrannaturale.
Passo attraverso un corridoio stretto fino a giungere verso un'apertura che s'allarga poco alla volta. Combatto contro una forza superiore che mi sospinge verso quella cavità pelvica.
Una luce abbagliante oltre la barriera della vulva che s'apre, s"allarga, m'inghiotte.
Non so se sto andando incontro alla vita, o alla morte.

Apro gli occhi, guardo sotto di me, sul fondo sabbioso, in cerca di cavità: niente.
Mi rimetto in moto, muovo braccia e gambe in direzione riva.
Pochi minuti dopo arrivo, gli ultimi passi pesanti sull'acqua bassa.
Mi arriva come uno schiaffo il chiacchiericcio della gente stesa al sole.
Mi irrigidisco, sento tornare in forza le difese verso il mondo ostile, percepisco la scomparsa della dolcezza, l'arroganza dell'istinto di sopravvivenza alle regole.
Mi volto per un ultimo sguardo verso il mare.
Ma vedo solo sabbia e acqua.

cristiano prakash dorigo

venerdì 27 luglio 2012

Report di uno stupore: lettura al Marinoni

Volevo cercare di fare in breve resoconto sulla serata al Marinoni, al Lido. Sarebbe possibile, se si tralasciasse il "breve". Eppure tocca: tocca non stufare chi legge; legge non scritta dei post: ci si censura un po', non tanto per una rincorsa all'essenza, quanto per un'economia di gestione delle supposte capacità altrui, di essere capaci di leggere in rete. Quando si entra nel boulevard di quello che era l'ospedale al mare, si rimane impietriti: da ambo i lati le casette che erano reparti, con finestre rotte, macerie, vecchi ausili: tutto buttato là, come "ci fosse stata un'epidemia, una fuga improvvisa, di corsa, rantolante, con la fretta che fa dimenticare i particolari inutili", dice una delle amiche al ritorno, a notte fonda, quando le impressioni sono sedimentate, e tornano a galla, in gola, immaginifiche, epiche, coraggiosamente cariche di colore. Prima di raggiungere il teatro, i discorsi convergono sull'italianità del desolante paesaggio: fossimo a Berlino, a Londra, ad Amsterdam, a Parigi, questo sarebbe un quartiere di artisti: orti, arte, vicinanza, creatività, colore. E invece siamo a Venezia, in Italia: un presente che prefigura abbandono, devianza, desolazione, topi; in attesa di imbellettamento formale, affari da milioni di euro, felicità private a diecimila euro al metro quadro. Entriamo e lo spettacolo toglie il fiato: tutto è contraddittorio, è fatiscente e poetico, è bellissimo e spettrale. Pensavo alle riviste, alle commedie, al teatro nella sua funzione originaria di intrattenimento e sapere, di interazione di emozione, allegria, pianto, umori, sudori, calore. Pensavo a ciò che era, che eravamo, che è, che siamo: e che qui, questo posto, scaturisce tutto ciò, per sua natura, per missione, per vocazione. Mentre prepariamo la scena e la platea, fuori, nello spazio tra il teatro e la spiaggia, un mercatino dell'usato che diventa, col calare del buio, uno spettacolo di per sé: un ritaglio senza tempo di attività antiche, di scambio, di dare e avere più da istinto di sopravvivenza che da ragioneria. Il sound-check procede con un'efficienza tranquilla, senza fretta. Il fatto che non ci sia corrente elettrica viene dimenticato dall'efficacia del generatore, che sopperisce in toto a tutto. Luci, amplificatori, mixer. Non c'è l'asta per il mio microfono, ma la si inventa con due aste buttate nei magazzini di questo commovente e infinito spazio che ha dimenticato il tempo, trasformandolo in parentesi temporale sospesa tra mare e laguna, tra imminente speculazione e subitaneo bisogno di contrapposizione alla stessa. Poi è cronaca spicciola: presentano il progetto Marinoni; presentiamo il libro e il progetto che sta attorno al libro. Inizia la lettura ( ma di questo vorrei parlare in altri post). Dopo la lettura c'è un intenso scambio di stupore, molto simile a quello che ti colpisce quando entri in questo posto. La sensazione che mi sembra di aver colto, è stata quella di aver condiviso un'ora di sospensione, di intensa relazione, di incontro tra le parole, la musica, l'ascolto. È molto difficile per me parlarne senza sentirmi superbo, tenendo a bada l'ego, cercando di fare una cronaca di un qualcosa di impalpabile e inconsistente, e se lo faccio, è solo per il ritorno che ne abbiamo avuto. Tentando di fare una cronaca di un piccolo evento, in una sera di mezza estate, la regola vorrebbe che chiunque, tranne me, dovrebbe svolgere questa funzione. Di solito si racconta ciò a cui si assiste, non il vissuto di ciò che viene proposto a chi assiste; ma il presupposto, enunciato all'inizio di questo post, è l'infrazione delle leggi non scritte. Il comitato che gestisce il posto ci ha invitato a tornare, e penso che così faremo, a partire da settembre, quando ricominceremo col giro di presentazioni di questo libro e questo progetto così anomali e fieramente indipendenti. Vorremmo fare quello che ci piace, come ci piace, dove ci va, con chi scegliamo. Il costo in termini di fatica e di ritorni economici ha il suo prezzo, e scoraggia e demoralizza, eppure. Il Lido di notte, Venezia, il lento ritorno verso casa coi pochi mezzi a disposizione. In vaporetto i turisti e i residenti si distinguono per i diversi stati d'animo, per la propensione, o meno, ad attraversare la notte in una città che dopo una certa ora muore, cedendo posto al silenzio, al buio. Gli occhi guardano, ma quello che vedono, dipende dall'osservatore. Mentre il vaporetto scivolava in canal grande, vedevo la promessa mancata, la magnificenza decadente, la bellezza eterna venduta al miglior offerente, che spesso si rivela il peggiore degli spergiuri. Non so cosa si dice quando si parla dell'anima delle città. So però per certo che qui mi sento a casa, almeno per quanto concerne l'aspetto interiore. Non ci abito più da molti anni, anche se mio padre e molti dei miei parenti sono qui. Io non me la posso più permettere; o forse non mi posso permettere di smettere di amare, concedendomi il lusso di non essere condizionato dal coinvolgimento appiccicoso dell'amante. Cristiano prakash dorigo

martedì 24 luglio 2012

Impressioni su "homo sapiens nord est": scambio di mail con A

Aggiungo dopo esserne stato autorizzato, uno scambio di mail tra me e A., una lettrice del mio libro. Temo che al solito l'impaginato non venga come vorrei, ma tra l'anteprima e la definitiva, c'è sempre enorme discrepanza. Spero comunque si distinguano le parti. Cristiano Mie note su “Festa di amici” di Cristiano Dorigo Anche in questo racconto mi colpisce la dimensione dello spazio e dei luoghi, o meglio la dialettica dentro-fuori che prende corpo attraverso lo sguardo del protagonista Prak. Qui i luoghi incorniciano e restituiscono, da una parte, attraverso il sogno, la memoria dell’infanzia come “guscio” protettivo, e come luogo della bellezza dello stupore, dall’altra, attraverso la realtà, i luoghi del presente restituiscono il confronto tormentato e faticoso con il proprio sé, la difficoltà a essere, e ad essere con. L’ascensore di ferro in cui Prak bambino scende con la madre i sette piani e in cui da dentro osserva il fuori è come “l’auto, un mondo dal quale osservare un altro mondo, è un guscio ventrale che li protegge”. Dentro-Fuori. Da dentro verso fuori. Lo sguardo di Prak bambino è uno sguardo in movimento generato e condiviso ad un tempo con quello della madre. Prak adulto invece si guarda. Allo specchio. Solo. Lo sguardo al risveglio dal sogno è “spalancatamente aperto” e bloccato come in un fermo immagine cinematografico, dilatato all’infinito, sulla visione della propria fragile nudità e della propria irrimediabile solitudine. La bellezza, accarezzata dallo sguardo rapito nella contemplazione, sembra essere irrimediabilmente “altrove”: in alto verso il blu e le stelle, o nel sogno della memoria dell’infanzia, o, ancora, nella visione inaspettata della bellissima “dea mulatta” Clohe. Inattingibile e “altrove, ovunque, ma non qui” come nel finale del tuo racconto “Altrove”. Perdersi nella contemplazione della bellezza è possibile ma sempre e solo per brevi attimi fugaci, la realtà irrompe e Prak inciampa e “scivola” nelle sue insicurezze, nel suo senso di estraneità, nella merda o nella telefonata di un amico che ha bisogno di aiuto. Cade così, in un istante improvviso e imprevisto, e senza che lui riesca ad opporsi, la possibilità di prolungare il movimento dello sguardo per viverla pienamente quella bellezza e tentare di portarla magari nel proprio mondo. Un senso di incompiutezza connota la percezione che ha di sè. Il luogo della festa è osservato con disagio, la comunicazione con gli amici è sentita sostanzialmente come distante e non autentica, impedita dalla necessità di dover mostrare i propri traguardi personali, una comunicazione interrogata e osservata da Prak nel momento stesso in cui la esperisce: sempre sulla soglia tra il dentro e il fuori quindi. Il punto di vista del narratore si con-fonde con i pensieri di Prak. E’ come se osservasse da fuori e fosse contemporaneamente dentro i pensieri, le emozioni e gli stati d’animo di Prak. Anche lui, il narratore, dentro e fuori nello stesso tempo. Forse la vera festa di amici per Prak è quella che ricorda nel sogno di quel pendio di terra che sospende la realtà pur facendone parte, nell’invenzione di altri mondi, nella condivisione reale del gioco che crea “senso di appartenenza” (una condivisone irrecuperabile e perduta nell’età adulta), nella fantasia, nel piacere totale, estatico e disinteressato della creatività. A Cara A, Innanzitutto ti ringrazio e ti scrivo due righe veloci dalla terrazza di casa, col pad sulle gambe; per cui molto informali, e soprattutto mattinieri. Ieri sera sono andato al cinema con Au a vedere "cena tra amici"- non so se sia esatto scritto così-, e ne sono uscito molto divertito e rilassato. Sabato sera sono andato a vedere un doppio concerto: milk and soap- una ragazza austriaca notevole-, e gli apparat in versione band. Artisti che non conoscevo: il mio livello di conoscenza musicale si ferma agli anni 90, e forse anche i miei gusti; sicuramente la capacità di introiettare il nuovo, è ormai compromessa dal peso del vecchio. Dico questo per dire quest'altro: ormai quando leggo, ascolto, vedo.,assisto, ecc., lo faccio da "spettatore-autore". Le mie lenti, cioè, mi fan vedere attraverso l'ottica della costruzione dello spettacolo, del meccanismo, della funzionalità. Giovedì saremo a teatro: in un ex teatro, a dire il vero. C'è questa struttura che dovrebbe essere abbattuta e sostituita da un quartiere moderno al lido di Venezia. È nella zona del vecchio ospedale, ormai ridotto a un posto fantasma, con in piedi solo un monoblocco che serve da poliambulatorio e pronto soccorso. Insieme al nuovo palazzo del cinema, a un progetto di darsena da milionari e, in parte, al mose, fa parte di un sistema di grandi speculazioni che convergono sulla città lagunare. Ebbene, un gruppo di volenterosi cerca di opporsi a tutto ciò, cercando di mantenere viva la struttura- vetri rotti, affreschi che rischiano di cadere, no elettricità, per cui funzioneremo grazie a un generatore, ecc-: una sorta di teatro valle, nei sogni di grandezza degli occupanti, in versione veneziana.  Dicevo di giovedì: leggerò tre estratti dal libro, e un racconto su Genova 2001- viste le recenti sentenze-, tratto dal libro precedente. Aspettative di pubblico: dalle quattro persone, alle venti, trenta, cinquanta: insomma, non si sa, anche se credo saranno molto poche. Ma si fa perché ci piace, perché c'è un nuovo ciclo da mettere in circolo, perché con questo libro e questo progetto, voglio fare solo quello che mi piace. Brani da supermarket, futuro è vecchio, tatto. Insomma, l'idea è quella di avere un tot di pezzi che raggiungano la sufficienza, averne il più possibile in repertorio, e cercare di leggere quelli più adatti alla serata.  Rieccomi dopo aver portato fuori il cane. Dovrei concludere. Ho scritto tutto ciò per dare sostanza ad un paio di concetti. Uno è che è proprio vero che quando si è finito di scrivere, quel che si è scritto assume la forma di chi lo legge, e vi si adatta benissimo.  Due che l'idea di questo libro è banalmente questa: ci accorgiamo di quanto poco ci si concede alla vita, vivendone una che è solo proiezione di quello che pensiamo che sia? E siamo disposti a morire e lasciarla per ricominciare?  Ma quando da un'idea si passa ai fatti, si lasciano a testimonianza le parole, si raccontano fatti, pensieri, idee, modi di guardare la vita, si lasciano molte altre tracce. Nel tuo caso, mi pare che queste tracce siano state vedute, intuite. Addirittura, e non è la prima volta che mi capita, ci sono angoli, visuali, strati, che non avevo pensato o voluto, ma che emergono e vivono di vita propria. Sono stato maldestro e inconcludente, poco logico. Pensavo al film e ai concerti e mi chiedevo cosa mi piacerebbe succedesse quando tocca a me, quando sono col microfono, il leggio, quando ci sono le persone, poche o tante, che sono là e ascoltano me. Oppure quando scrivo, quando passo ore e ore da solo ad aspettare le parole, e poi a scriverle in modo compulsivo come sgorgassero da me sì, ma più che altro attraverso me, come fossi semplicemente il mezzo scelto da quelle parole che devono essere scritte in quel modo, in quel momento, pur sapendo che non ci siamo, che si può fare di più, meglio. Come fossero appartenenti a un flusso che va in una direzione perché così è e dev'essere. Ecco, vorrei comunicare, entrare in relazione. Vorrei essere il tramite di quel flusso, modificare un po' il tragitto, lasciare tracce, spostare qualcosa dentro. Ed è questa, per me, la differenza tra scrivere, o cantare, o fare film di mestiere; o fare le stesse cose senza scopo, senza fine, che non sia assecondare quell'istinto che non ha risposte, che troppo spesso non ricambia in termini monetari, ma che fa stare bene. E che forse dà un senso a ciò che un senso, a livello cerebrale, non ha. No rileggo perché se no probabilmente cancellerei e rifarei.  A presto e, se vuoi, continua a scrivere le tue impressioni e quelle dei prossimi che leggeranno: sono benzina che fa andare avanti il motore Cristiano

martedì 17 luglio 2012

Supermarket al Marinoni

Pensavo alla serata al teatro Marinoni del Lido. Facevo considerazioni sul fatto che era uno dei posti in cui volevo andare. Il teatro ha tutta una sua storia- consiglio di visitare il sito per capirne e saperne di più-, e attualmente è tenuto in piedi, in senso letterale da un gruppo di persone che insistono nel considerarlo bene comune, e che offrono tempo e passione a quest'idea. Per quanto riguarda noi, avevamo deciso di passare l'estate nella preparazione degli impegni che ci attendono a partire da settembre. Questo significa sala prove, prove, prove. L'idea è quella di sviluppare una certa idea- per adesso tecnicamente ancora immatura-, e affinare l'esistente. Ma non è mai come si pensa, e l'arrivo di nuove persone- per ora una, più avanti almeno un'altra, poi non so-, modifica l'assetto del gruppo: nuove idee, relazioni, pensieri, modi di esprimersi. Quello che rimane in prospettiva, però, non cambia: fondere musica e parola, farne uno strumento comunicativo complesso e compatto. Credo ci siano diversi modi di esistere, vivendo anzichenò. Io ho trovato la mia strada, dopo numerose e tortuose traversie, in quella che normalmente viene definita creatività. Da qualche anno vivo assecondadola, dandole respiro, concedendole spazio e tempo. Questa creatività, al di là del risultato qualitativo, terreno molle e insidioso, si concretizza nel lavoro di cui sopra. È il mio strumento per stare bene, per carezzare la vita, per sentirmi pienamente esistente. Questo ha a che fare in senso lato con la condivisione, con la relazione, con la comunicazione. E non mi riferisco al modo ufficiale di intenderle, ma a quello soggettivo, che si misura e confronta con la sensibilità di ciascuno, con la possibilità di scoprire un modo altro di stare al mondo, pur rimanendo dentro ai canoni della civiltà, della reciprocità, della condivisione e interazione tra persone. Quando mi sono incontrato per discutere le modalità pratiche, concrete, di fare qualcosa al Marinoni, la cosa che è emersa in modo evidente, è la precisa volontà di sentirsi parte di un bene comune. Ho riflettuto molto su questo sottolineare l'idea che un bene possa diventare di uso comune. In questi tempo tristi, di isolamento, di marginalizzazione ed esclusione, pare un'impresa assurda, forzata, utopica. E si battono in prima persona perché un presidio culturale e popolare non venga trasformato in fighetteria moderna da architetti e aziende dalla parcella al passo coi tempi. Pensavo che insistere sul concetto di cultura, dopo un quasi ventennio di spallate possenti a qualsiasi cosa che prevedesse un minimo di alfabetizzazione estetica, abbia a che fare, banalmente, con la libertà. La libertà, ad esempio, di poter scegliere se andare a teatro o no. E che questo dipenda dal fatto che ci può piacere o meno, e non dal fatto che il teatro è stato chiuso per far posto all'ennesima svendita. Concludo dicendo delle nostre scelte. Siamo stati ai Frari, a Cà Tron, al Candiani; ora tocca al Marinoni, e poi da settembre, un giro più largo ed eterogeneo, anche fuori regione. L'idea è quella di incontrare, relazionarsi, confrontarsi. L'idea è di offrire l'opportunità, per quell'oretta scarsa, di stare bene, di condividere, di farsi delle domande, di farne, con l'idea che difficilmente si troveranno le risposte. Cristiano Prakash Dorigo

sabato 14 luglio 2012

Scrittura e cura

Scrittura e cura Ci sono improvvisi momenti di lucidità in cui si percepisce che tutto può essere diverso. In questi brevissimi istanti di risveglio qualcosa, dentro, si modifica. La prospettiva da cui di solito si osserva la vita, si apre all’ignoto. E tutto è limpido, cristallino. L’ignoto, in questi frangenti, si trasforma in chiara comprensione di quanto, normalmente, non riusciamo a essere ciò che in realtà siamo: di quanto ci difendiamo, di quanto abbiamo paura di ascoltare ciò che sentiamo dentro, di quanto siamo lontani dalla nostra verità. Comincio in modo desueto la mia lettera. Ti scrivo, come sempre, per condividere quel che sento. Il nostro rapporto epistolare non soffre la distanza; anzi, ne trae beneficio, scava una maggiore intimità, e confonde, mischiandola, la verità oggettiva da quella percepita. Dura da una decina d'anni ormai l'abitudine di scriverti. Prima a penna, su dei fogli rubati alla fretta, col furore inoffensivo della tarda giovinezza, come narcisi che, nomadi, offrono e prendono dei quasi amori; alternano incontri carnali mancati, ad altri consumati con la voracità di chi vuol finire presto, perché l'alternativa impossibile è che non finisca mai; belli e brutti, tutti comunque utili ad avere qualcosa di mooolto memorabile da raccontare. E non importa se è vero o solo immaginato. Adesso con il computer, con una più quieta pulizia di stile. Adesso sembriamo immobili al confronto; in realtà, e lo sappiamo bene, abbiamo solo spostato i luoghi delle frequentazioni: da fuori, estetici, scintillanti; a dentro, profondi, autentici- nelle intenzioni, almeno- Oramai sono totalmente de-mondanizzato e, se vuoi trovarmi, non cercarmi nei posti in cui succede sempre qualcosa, dove “c’è vita e bella gente”, o com'è accaduto, dove "c'è morte e brutta gente", che più o meno è la stessa cosa. Quando eravamo più giovani, eternamente tardo adolescenti, ci raccontavamo il passato e il futuro, fantasticando continuamente sulle infinite possibilità che la vita poteva offrirci. Che male poteva fare, rielaborare ciò che era stato o sognare il divenire? Vanagloriosi, ostentavamo con fierezza la nostra trascuratezza e l’aria un po’ sconcertante degli alternativi alla forma. Non era in verità solo la rappresentazione di una concreta scelta sociale; almeno non la percepivamo così. Era forse più un ludico mascheramento che doveva testimoniare come ci sentissimo diversi, come non riuscissimo ad essere come avremmo dovuto. E allora: politica, musica, droga, sesso; tutti eccessi provinciali, baldorie fittizie, mascheramenti, recitazione. Tutti perfettamente omologati ad uno stile di vita parallelo che riuniva i diversi. La storia è materia interpretabile, e la nostra versione ci fa dire, adesso, che siamo stati un po’ sfigati, costretti a saltare dalla generazione dell’utopia dell’amore libero e della rivoluzione possibile, a quella della ricchezza materiale diffusa; o meglio, spartita tra pochi paesi ricchi, che come neo-vassalli giocano a dama con un'umanità-pedina. Intanto il resto del mondo affogava nella merda, senza vie d’uscita, piegato dalla fame, come sempre era stato. Come collocare il disagio se non obliando pensieri pesanti, contestando le minuzie, i particolari, spesso senza valore? Quante avventure abbiamo vissuto che meritino un posto significativo nella nostra memoria; quante volte ci siamo sentiti perdutamente vivi? Recentemente ho letto alcuni libri che mi hanno offerto alcuni interessanti spunti. Dicevano, in sintesi, che lo scopo della vita è conoscersi, bastarsi, accettare la propria solitudine ed unicità. Da quando l’ho fatto, percepisco un continuo lavorio interno; come ospitassi una presenza roditrice che sgranocchia certezze. Con la mente riesco a relegare in periferia queste scomode ed irriverenti idee; ma da lontano, come il riverbero di un’eco, sento che vivono e hanno lacerato la solida corazza delle mie sicurezze. Infatti non riesco più ad ignorarle e ad ogni bugia, finzione, furbizia, reagisco come se ne fossi allergico. Così ho deciso di accettarne l’ineluttabilità constatando che, forse, quel vago senso di vuoto che provavo con sempre maggior insistenza ultimamente, potrebbe trovare risposte. Ma devo spiegarmi meglio a te. Quando sono fuori casa, in un qualsiasi posto, osservo le persone. Ricordi quando eravamo ragazzini? Era un vero spasso per noi! Avevamo come un’immensa lente d’ingrandimento attraverso cui guardavamo chiunque ridendo e scherzando come pazzi. Adesso no; adesso non mi frega niente di come uno si veste, si pettina, s’atteggia; adesso la differenza è dentro, è un profondo senso d’estraneità, di non appartenenza: a niente e nessuno. Non tollero più l’ipocrisia, le maschere, la finzione. Non accetto più di continuare ad abitarle, a non riuscire a staccarmene, se non con atti di attenzione, che mi restituiscono ciò che sono: l'inquilino di un robot, uno che presta le sue maschere alla messinscena della vita formale, sociale, riconosciuta come autentico compromesso, introiettato da tutti, riconosciuto come sola soluzione all'ammaestramento della bestia che ci abita e che teniamo a freno con surrogati di felicità consolatoria. Sono sconvolto da come questi elementi siano uniti, dalla simultaneità con cui si sono manifestati: sono solo, unico. Allora, mi dico, val la pena riflettere su come è strutturata l'esistenza, sull’organigramma sociale; su chi sa e organizza, attribuendosi in malafede un potere quasi divino, creando fasulle occasioni relazionali, reciproche tentazioni a pagamento, pretestuosi vizi e bisogni indotti, inibendo al rango di potenziale cliente, la persona e il suo istinto. Ho raccolto ogni singola lettera che ho scritto e, a rileggerle facendo attenzione all’ordine cronologico, se ne ricava l’evoluzione personale, quella ambientale, la precarietà e mutevolezza di idee che sembravano, se contestualizzate, promesse di fedeltà eterna. A volerle poi interpretare con occhio smaliziato, se ne potrebbe ricavare un diario di vita, un interessante rapporto epistolare che rivela senza filtri, complice la confidenza e le reciproca benevolenza. Emergono, tra gli altri, elementi che fanno pensare allo scampato pericolo, al superamento di una precarietà romantica e tenera che rimanda ai giocolieri circensi. Come equilibristi su una corda tesa, bisognava fare attenzione a non cadere, a raggiungere l’altro capo con calma, senza sbagliare. Confesso che più vado avanti, più lascio al tempo che fu la frenesia del fare per fare, del baccano per sottolineare la presenza, del seguire l’istinto senza cercare di comprendere quale natura lo spinga, lo faccia pulsare nel corpo e nella testa. Ora, ciò che sono, corrisponde sovente a ciò che faccio: mi sento più autentico, coerente. Insomma, molto di quel che eravamo, non mi serve più. Volevo dirti quello che penso adesso dell'amicizia, del bisogno di stemperare le divergenze, smussare gli angoli, accettare di farsi pungere dalle nostre spine aguzze, dagli sbalzi d'umore, dalle piccole cattiverie. Più ci si conosce, più emergono le parti in ombra, gli istinti primordiali, le parti nascoste dal bisogno di estetizzare quello che non ci piace di noi. Scoprendosi, osando dire il taciuto, scontrarsi temendo di farsi male, ma non rinunciando a dire, la figura umana speculare dell'altro sta riempiendo ogni casella, rivelando l'interezza, l'unità disgregata senza più temere il giudizio. E così il rapporto di amicizia, più di quello amoroso, verbalizza i pensieri sparsi e disordinati che pensiamo continuamente e che risultano sempre parziali, occasionali. Sforzandosi di dire, di costruire delle ragioni, pur anche irrazionali, nude, rivelate nella loro genesi ereditaria, familiare, ambientale, e perciò incolpevoli d'esistere, ed accettarle, confortati dalla reciprocità. Non è facile non giudicare, tenersi a distanza di sicurezza dai propri umori, dal proprio sistema valoriale. Ma quando si è amici, e lo si è davvero, la benevolenza supera e sublima questi tratti; e le contraddizioni, le difficoltà, diventano terreno neutrale in cui confrontarsi, anziché configgere. Lo sai bene, l’avevo promesso che da allora, da quel preciso momento, avrei cambiato la mia vita; l’avrei vissuta cercando di comprendere. Sono ancora legato a quella promessa: ho iniziato un cammino che non prevede ripensamenti, che include in sé la pazzia e il suo antidoto, che mi ha segnato rivelandosi, talvolta, faticoso e pesante ma, al tempo stesso, autentico. Da quando ho cominciato a scriverti ho allontanato e controllato il dolore; è stato il mio modo di (r)esistere, di accettare gradualmente quello che era successo, anche se ho imparato, ormai, che i cambiamenti avvengono all’improvviso, come con un salto, una discesa senza freni. Esordivo dicendo che ci sono momenti di lucidità che illuminano brevi istanti; che da questi momenti se ne esce con l’intuizione che esiste un modo diverso di essere. Questi mi hanno aiutato a capire che ero sopraffatto dalla paura di soffrire e che dovevo reagire. In questi anni ho comunque vissuto, sono cresciuto, ho costruito rapporti, ho lavorato. Quest’abitudine di scriverti era il mio segreto; era il luogo in cui lasciare e conservare tracce di me che non sapevo, altrimenti, come esprimere. Mi ha aiutato a capire, a dire la mia verità, a sentirmi al sicuro come avessi un rifugio intimo e inespugnabile; come avessi uno specchio che riflette la coscienza. Poi, per caso, senza avvisare, arrivano quei momenti e cogli il senso di quello che accade, della vita; che tutto inizia e finisce. Sto dicendo che questo comunicare, felice ma ermeticamente chiuso, sta esaurendosi. Che questo bisogno di interiorità sta cambiando luoghi e confini, che sarà più scoperto; che sono pronto a pagare il prezzo di questa nudità. Sto tentando di dire che val la pena rischiare, aprirsi, buttarsi nel mucchio, esprimere selvatichezza e dolcezza, respirare a pieni polmoni. Sto dicendo che da quando te ne sei andato ho imparato molte cose, ho scoperto piccole verità, ne ho scartate altre, ho capito che bisogna accontentarsi di questo. Quello che so, che riconosco come immutabile, è frutto di intuizioni e non di pensieri: questi ultimi hanno il limite oggettivo di essere contenuti all'interno delle regole del gioco, dei conformismi o, al contrario, da moti di ribellione a questi. Ma, appunto, gli appartengono. La conoscenza scientifica sta dimostrando che più si approfondisce il sapere, più questo è relativo e instabile, fragile, tenuto in piedi fino alla successiva scoperta, che lo abbatterà. Sto dicendo che ho compreso a fondo che si deve partire da noi stessi per rivoluzionare lo status quo. Sto dicendo che solo da poco tempo ho accettato di averti perso per sempre e che devo continuare perché ho finalmente la voglia e la forza per farlo. Addio, ti ricorderò per sempre.

martedì 10 luglio 2012

Egoismo della conquista e della noia: Cadevo nel mio inferno

Ricordo ancora nitidamente la scena/ Eravamo nei tavolini all'aperto,/ Nel giardino interno di un bar/ Io alla tua sinistra,/ Triste e sinistro,/ Gomiti appoggiati al tavolino/ Tu a destra,/ La mano a sostenere la testa/ Mi guardavi e ascoltavi/ La mia confessione iniziava mesta/ E pian piano lacerava la carne,/ Perdeva sangue e sudore/ Tu ascoltavi impassibile/ Poi leggeri smottamenti/ Fino alla commozione sincera/ Sentivo che solo dicendo tutto/ Mi avresti concesso/ Una possibilità/ Eri arrabbiata e indisponibile/ Ma di fronte alla nudità/ Ti concedevi alla compassione/ E io continuavo a parlarti/ La voce bassa supplicante/ Disponibile al martirio/ A quel punto eravamo alla pari/ Ti avvicinavi un poco/ Mischiavi con me il respiro/ Ci alzavamo, eravamo vicini/ Allungavo la mano dietro la nuca/ Ti carezzavo il collo/ Ti scioglievi un po'/ Accettavi il tocco/ Dicevi "sento ancora i brividi"/ Al quel punto la conquista e la noia/ Cedevo di nuovo al torto/ Cadevo ancora nel mio inferno

lunedì 9 luglio 2012

seconda parte intervista televisiva



la seconda parte dell'intervista.
avrei molto da scrivere, ma scriverò poco, e a proposito di un argomento che ne comprende molti.
ad un certo punto dico che non è un libro da classifica, ed è vero. Non lo è perché parla di sintomi, di morte, di vita, di sofferenza, di anzianità, di disagio, che sono argomenti forti e attuali, ma di cui nessuno ha voglia di parlare, né tantomeno di leggere. Naturalmente, sottotraccia, ci sono concessioni all'ironia, all'idea di ricostruzione dell'esistenza, alla consapevolezza che diventare vecchi senza aver vissuto, o comunque sopravvivendosi addosso, ha poco senso. E che droga e sesso, sono appunto sintomi.
Ma tutto ciò, che sia sopra o sottotraccia, non interessa le classifiche.
Un'ultimo invito: se qualcuno vuole invitarci per reading, per letture sceniche, per presentazioni, per "parole a domicilio", è il benvenuto.

Cristiano

sabato 7 luglio 2012

La semplice complessità della vita: sogno a nord est

Di notte mi giravo sul letto e sentivo parole che arrivavano chissà da dove. O almeno mi pare. Era come quando in un film c'è una voce solenne fuori campo. Se non ricordo male, parlava della vita e diceva così. Ci sono cose semplici che paiono complesse e complicate. L'ideologia, ad esempio, è semplice anche se pare di no. È una malattia che scarnifica, che mangia sonno, che porta con sé gastriti e coliti e altre schifezze somatiche. Si dice che da giovani si è tutti di sinistra, o quasi. Si anela alla giustizia, all'uguaglianza, alla libertà. Si studiano e si leggono certe teorie che fan girare la testa, che scaldano le vene, che obnubilano la mente. Poi si cresce, si lavora, si inizia con quella che, dicono, sia la vita vera, noiosa, piatta, senza più quelle spinte poderose a far girare la testa. Si fanno figli, gli si insegna il meglio che si può a parole, mentre la realtà ti mangia poco a poco la facoltà di essere soddisfatto, in pace, tranquillo. La fine delle illusioni, gli scazzi generazionali, le parole ripetute dai figli, tali e quali a quelle che si dicevano ai propri genitori, ma ribaltate; adesso siamo noi a venir accusati di essere conservatori, poco arditi, noiosi. E lo siamo perché crediamo davvero che la società così com'è fatta, non la si possa cambiare, ma al massimo, abituarsi a subirla. Niente è più fresco, fragrante, succoso. A parte certe giornate con gli amici, certe piccole soddisfazioni, tutto il resto è oppressione. Magari ci si attacca ad una squadra di calcio, ad una fede particolare, giusto per appartenere a qualcosa. Ci si sorbisce giorno dopo giorno l'andamento della borsa, giusto per essere informati su come questi ci fottono e monetizzano il nostro lavoro. Si guarda alla tivù e sulle riviste la vita di gente che sa a malapena firmare i contratti che li vedrà ricchi protagonisti di uno spettacolo insulso, ottuso; giusto per vivere per interposta persona le loro vite morte. Ci si augura che la sorte ci assista, e la malattia scelga qualcun altro invece che noi. Si finge di accontentarsi del niente che abbiamo e che siamo, tutto comprato faticosamente a rate, per sentirsi alla pari con gli altri. E se si arriva alla vecchiaia, si arriva col fiato corto, con la bile che ribolle, col conto in rosso o, come fosse una conquista, con due BOT da parte, da lasciare ai figli, per pagarsi il funerale e almeno un appartamento che così li aiutiamo a tirare avanti. Quando mi sono svegliato, ho pensato che ho davvero corso il pericolo di vivere così, e cioè di non vivere, facendo il bravo cittadino. Mi sono subito riappropriato di me, mi sono ricordato che non sono mai stato un bravo cittadino, pur essendo una brava persona. Che la vita mi prende sovente a calci in culo, ma mi regala anche sorprese e doni inattesi. Che vivo come uno che trasforma la vita in racconto e se ne frega di farlo in termini di vendite; che l'importante è quell'arbitrio, quel talento che trasforma la fatica, le gioie, il nulla, in azioni creative. Che mia figlia somiglia a me, che è educata ma non potrà mai essere ammaestrata. Ho tirato un sospiro di sollievo e mi son detto che valeva la pena scriverlo sul blog, che rimanga a memoria, che informi gli altri che si può. Che si può cosa? Che si può, e che anzi si dovrebbe, vivere la propria vita secondo la propria attitudine e la propria misura e tempo e modalità. E che se si guardasse meno gli altri in termini di confronto, e li si frequentasse con la consapevolezza che è bello starci insieme e mischiarsi, e scambiarsi quel che si è, possibilmente senza secondi fini, sarebbe tutto migliore, sano meno malato. Ebbene sì, la ricetta sarebbe abbastanza semplice e con poco si farebbe molto, anche se ovviamente non tutto. Quando mi sono svegliato, ho capito di aver sognato che scrivevo sul blog. Ho capito che avevo capito qualcosa, e che purtroppo l'avevo dimenticato. Ho capito che avevo sognato di sognare che sognavo. Mi sono guardato intorno, ed ero nel solito nord est.

venerdì 6 luglio 2012

Genova 2001. Dubbi

DUBBI Ho trascritto per un lungo anno quel che mi succedeva: per riconoscere i miglioramenti, cogliere i progressi, come abbia saputo reagire. Per affrontare lo stato di profondo disequilibrio, mi venne consigliato di scriverne. Così ho fatto; in duplice copia: una per l'analista che mi segue, l'altra per me. Gli appunti esordiscono così: “ Giovedì sera, 19 luglio. Sono in stazione, fra poco arriva il treno e partirò. Io, come molti altri qui, sono solo. Solo, penso…… Sono sempre stato solo nelle idee, trasversale, tormentato e ho sempre suscitato sentimenti contrastanti; come se l'adesione o meno a certe posizioni, a convincimenti altrui, bastassero a conoscere una persona. Ho accettato l'invito pur non condividendo le idee di alcun gruppo: idiosincrasia al credo massificato, impacchettato. Non appartengo a nessuna corrente fideista, a nessun credo istituzionalizzato, e non per scelta ideologica ma per necessità fisica: sono solo con le mie domande, orfane da sempre di risposte. I miei maestri dicono che non si devono seguire i maestri, che bisogna esperire invece di credere. Venerdì mattina, 20 luglio. Arrivo. Sto cercando gli altri ma nonostante i telefonini, non riusciamo a trovarci tanto è traboccante la fiumana di gente che affolla ogni centimetro di questa città impazzita. Mi aggrego al corteo che parte con calma, gioioso, curioso, contagiato dal clima euforico, come di festa. Si balla, si canta, improvvisando, come investiti da un inconscio collettivo che annulla ostilità e diffidenza. Quasi non m'accorgo che ho dimenticato ogni giudizio, ogni domanda: sto bene e basta, senza bisogno di spiegazioni e ragioni logiche. Iniziano però quasi subito le soste forzate. Il tam-tam informale del passaparola, diffonde notizie di disastri, di incidenti. Il corteo, eterogeneo, immenso, viene scosso all'unisono come fosse un unico organismo vivente dal frastuono inconfondibile di spari; tremende visioni di fumate dense, spesse e puzzolenti, rarefatte come allucinazioni, spengono, spezzandolo, grazia e profumo. Venerdì, pomeriggio. Sto male. Poco da scrivere: viso e occhi bruciano di violenza chimica e rabbia, subite mio malgrado. Vista, olfatto, gusto sono compromessi. Nella sofferenza dei sensi, nulla ha più senso. Con un gruppetto di 7-8 ci allontaniamo e riguadagniamo la strada. Percorriamo una via e ci troviamo improvvisamente nel mezzo di uno spettacolo infernale: tutti urlano urla disumane, poliziotti, carabinieri, manifestanti, fotografi, operatori televisivi, passanti colti da panico. C'è un odore acre di fumo di lacrimogeni, di immondizie che bruciano; la gola a pezzi, gli occhi chiusi, le gambe schizzano e corrono anche se i polmoni urlano, il naso è brace ardente. Corri, scappa, corri; non importa più dove o lontano da chi. Venerdì sera. Sfatto, allo stadio. Angoscia, stupore, solitudine. Impotenza, stordimento, sfinimento. Venerdì notte. Di merda. Sabato mattina, 21 luglio. Vado senza sapere perché, mi unisco ad altri con un misto di inerzia e volontà. Dopo un po' arrivano notizie di gruppuscoli radi ma determinati che spaccano tutto senza che la Polizia faccia niente. Sottolineo: l'estremismo di pochi strumentalizzato ad arte, esteso a tutti. La rabbia scaturisce gesti, inibisce la ragione. L'enorme corteo è spaccato e tutti fuggono; l'adrenalina anima le gambe, il sangue pompa sui muscoli; siamo un branco di animali. Sabato pomeriggio. Non so più dove sono. Sono assente da me. Mangio meccanicamente un panino e capisco che siamo tutti sotto shock. Sono seduto su un muretto e vedo arrivare verso di me un grumo di gente che corre, fugge. Non realizzo subito e, un attimo dopo, è troppo tardi; un gruppo di poliziotti ci circonda e ci bastona con lo sfollagente. Cerchiamo di parlare e spiegare che stavamo solo mangiando un boccone, ma per risposta, pestano, pestano, pestano, pestano!!! Sabato sera. Ora so dove sono: un commissariato, uno qualsiasi. Siamo in tanti, per ora in piedi; tutti, uomini e donne, in corridoio. In quel preciso momento so che sono un fermato e sento nell'aria acida il fetore della paura, e che mi aspettano ore da incubo. Cerco di farmi spiegare qualcosa, ma quelli urlano, spingono. Ci trasferiscono in uno stanzone e per un paio d'ore o chissà quanto, stiamo tutti genuflessi, mani sul muro. Le ragazze sono insultate, umiliate, minacciate. Faccio un altro tentativo, provo a formulare una domanda, ma in tre, fulminei, mi raggiungono da dietro e urlandomi diritto alle orecchie e sputacchiando saliva, mi intimano silenzio. Con i manganelli spingono ai reni, ai fianchi, sulla spina dorsale. Come fosse un preludio, un rimando al dolore che potrebbero provocare se non ubbidissi. Quei manganelli di merda non fanno male; non ancora; lo lasciano solo immaginare. Vorrei guardarli negli occhi, cercare e trovare la conferma della loro umanità, capire cosa ci sia dietro a tanto spregio, come sia possibile ci trattino così. Ma non me lo permettono, mi girano la testa con le loro mani pesanti, i polsi grossi, il radicato convincimento che loro sono i più forti, i padroni. Dopo ore gravose, ci fanno stendere, ci lasciano pisciare, ma molti non hanno il coraggio di staccarsi dal gruppo; più semplice chiudere gli sfinteri. Siamo tutti, ormai, totalmente in balia di questi uomini-bestia allenati a terrorizzare, a ritorcere la volontà, a piegare gli istinti. Due in divisa, uno per parte, mi sollevano e spingono attraverso un corridoio fino ad un ufficio. Mi fanno sedere a suon di spinte: devo confermare le mie generalità. Una volta denudato sono perquisito da mani callose , dure, volgari e incapaci d'amore, che feriscono. Commentano il mio corpo con ancora maggior volgarità, sputando minacce, violenze, dicendo tra loro che il prossimo ad essere perquisito sarà una ragazza e che se non sarà brava e condiscendente, le ficcheranno il manganello dentro. Sottintendono, nel clima rarefatto e surreale, che potrebbe succedere anche a me. Penso ai romanzi sudamericani, ai noir di Ellroy, ai film che mostrano pestaggi e finte esecuzioni. Finalmente finiscono, mi riportano nello stanzone. Sono un loro oggetto. Nel delirio gli voglio quasi bene, gli sono grato di non avermi annientato. Molte ore dopo prendo coscienza che l'ambiente è al buio a causa degli scuri chiusi ermeticamente. E' giorno, lo si capisce quando entrano: una luce più plausibile, vera, penetra repentina dalla porta e ferisce i nostri occhi stanchi. Tutto si protrae ancora a lungo: tanto da farci chiudere gli occhi dalla spossatezza, per poi farceli spalancare dall'angoscia. Lunedì mattina. Sono a casa. Ho chiamato il lavoro, ho preso una settimana di malattia. All'apparecchio ho sentito, o almeno così mi è parso, un brusio quasi impercettibile, come stessero intercettando il mio telefono. Quando ci hanno fatti uscire, un po' per volta, sempre da soli, dei ragazzi che non conoscevo mi hanno consigliato di stare attento, di non parlare con nessuno tanto meno coi giornalisti; di stare, per un po', tranquillo. Andando in stazione mi è passata accanto una pattuglia della polizia; ho istantanemnte iniziato a tremare in modo incontrollato, a sentire un orrore assoluto impadronirsi di me, penetrandomi fino a dentro le ossa. Rabbia, terrore, incapacità di inquadrare razionalmente quel che era successo. Pensieri e ossessioni sembravano superati, nei loro limiti fantasmatici, dalla crudezza della realtà. Dopo un mese lungo un’eternità, ho accettato di farmi vedere da una psicologa per i disturbi del sonno, la quale mi ha inviato da uno psichiatra. Ogni mattina però, al risveglio, credevo di sentire quelle urla, di vedere quegli occhi privi di sguardo e penetrabilità, di sentire la punta del manganello su di me, sulla schiena. E ogni sera, e ogni telefonata, e ogni sguardo rivoltomi, riaccendevano quel terrore cieco, fisico, brutale. Un pensiero fisso cresce di giorno in giorno. Risponde al bisogno di pensare che quelle divise erano abitate per la maggior parte da ragazzi impacciati e impauriti; agenti-ragazzi che non sapevano niente di quanto stava accadendo nelle stanze del terrore, dove i loro colleghi, ignobili e ignoranti squadristi allenati a torturare, usavano contro di noi cieca violenza. 20 Luglio 2002 Un anno dopo. Ho preso due giorni di ferie, comprato il biglietto del treno. Devo tornare a Genova: devo! Forse!

martedì 3 luglio 2012

L'estate è un'infinità di adesso

L' estate è per me un periodo che comprende simultaneamente stacco e aderenza. Lo è senza struggersi per la contraddizione, quasi si prendesse una vacanza dal giudizio. In questo periodo il mio corpo manifesta quanto mai la sua presenza attraverso alcuni sintomi. Prima di descriverli, apro una piccola parentesi sul concetto di corpo. A lungo ho considerato il corpo come una delle tre componenti principali che formavano me: corpo, mente, anima. La vita poi, con la sua dolce durezza mi ha invitato ad approfondire il concetto, ad andare al di là di quella che è la credenza diffusamente riconosciuta, anche se forse mai verbalizzata, ma di certo agita, in questa parte di mondo. Si nasce e si cresce con l'idea che ci sia uno spirito che galleggia in uno spazio indefinito ma puro, e che ci siano emozioni, reazioni, tentazioni che mettono a dura prova la bontà di quell'entità fluttuante. Ebbene, non è così: noi siamo un tutt'uno, siamo un insieme di tecnologia naturale che si muove in sincrono. Quando così non è, quando ci si dimentica qualcuna di queste componenti, il corpo reagisce. E lo fa non perché sia vendicativo o cattivo: lo fa perché il suo compito è quello di mantenere un equilibrio, a prescindere dalla nostra volontà o della nostra memoria. Ci sarebbe a dire il vero da dire sul nostro valore oggettivo nell'infinito, di quanto siamo a malapena un'idea limitata, un granello infinitesimale, una manifestazione gassosa impermanente, ma perderei tempo e non sarei abbastanza accattivante da convincere chicchessia a continuare a leggere questa mia. Dicevo dei sintomi che il mio corpo manifesta. I più evidenti, insieme alla spossatezza che tutti conosciamo, si evidenziano sul collo, sull'ascella destra, sull'incavo del braccio destro: delle "cotture" che mi tormentano non poco. Quando fa il caldo che fa in questi giorni, il mio sudore diventa una sorta di acido che, scorrendo, provoca delle piccole ferite che diventano rosse e mi graffiano la pelle, già delicatina come quella di un bimbetto- infrangendo così le mie aspirazioni di uomo duro, coriaceo, maschio-, in quanto, penso io, molto secca. Il sudore ha la funzione di idratare la pelle, e così fa; a me però provoca questi fastidi, questi segni rossi accesi. Ma è pur vero che l'estate alleggerisce la percezione del tempo, la sensazione di pesantezza gravitazionale, invita alla spensieratezza e alla relativizzazione dell'esistenza. A me capita di pensare che, ad esempio, se piove, poco importa perché tanto ci si asciuga in fretta. Oppure che anche se è tardi e si dorme poco, la mattina seguente il sole ti solleva le palpebre e ti invita a svegliarti e vivere. Questa settimana ho dormito poco per il troppo caldo e il mio corpo fatica a tollerare questa lenta pesantezza. Ho letto che a causa del surriscaldamento del pianeta si sta alzando il livello di calura, a tal punto che le temperature del sud europa saranno come quelle africane, e che quelle del sud, si trasferiranno nel nord Europa. In pratica: Roma come Algeri, Berlino come Roma. Concludo questi miei pensieri sparsi. Non so se sia un bene o se rovini l'atmosfera. Volevo parlare delle vacanze che quast'anno non farò. A dir la verità succede da un paio d'anni, da quando la cosiddetta crisi ci ha investiti, a diversi livelli e con differenti conseguenze, ma dalla quale nessuno è escluso. Penso alla mia infanzia e gioventù, durante le quali mi potevo concedere, con la famiglia, almeno un paio di mesi fuori città, andando in montagna. Passati decenni da allora, ora siamo a questo punto. Quella che per me era normalità, ora è mancanza. Penso anche, però, che questo ci sarà utile a riportarci coi piedi per terra, a farci riflettere su ciò che è necessario, e ciò che no. Penso che sia l'occasione per rimetterci tutti a pensare che la vita può essere un'occasione, un percorso, un.'opportunità. Troppo spesso è battaglia, passerella, finzione. Non lo scrivo per chiudere col predicozzo. Lo faccio perché credo che non sia mai troppo tardi, e che tutto ciò che siamo, che abbiamo, è solo questo stesso momento. Proprio questo, non altri: il nostro tempo è questa infinità di adesso. L'invito estivo è di non perderlo, di non dimenticarcene, di viverlo in pienezza. Cristiano

domenica 1 luglio 2012

Appunti sparsi sull'europeo

Appunti sparsi sull'europeo Il Calcio è l'oppio dei popoli. Non provo felicità né struggimento per la vittoria spagnola e la sconfitta italiana. Penso che la media di quei giocatori in termini salariali, rispetto a me, sia più o meno questa: guadagnano in un giorno, più di dieci volte, quello che guadagno io in un mese. C'è ancora chi crede alla sfiga, ai riti scaramantici, ma si vergogna ad ammetterlo; c'è addirittura chi non si vergogna e, così come per la fede, il suo atteggiamento è: se esiste bene, se no, mica ci ho rimesso. Notavo nei giorni scorsi, oltre all'orgoglio della vittoria, un atteggiamento che avevo già notato per le partite di club: il godimento consiste nel rinfacciare ai perdenti la sconfitta. La vittoria somiglia alla sveltina, dura pochino. Ma poi sempre pronti alle rimembranze. Coi giornalisti, trasmissioni, pubblicità, il meccanismo è talmente pompato che nessuno mai si sognerà di pensare che in fin dei conti si tratta di prendere a calci qualcosa. C'è chi ci costruisce un'epica, chi un'azienda, chi una carriera, chi fama, chi guadagni indicibili, chi epopee, cicli, leggende. Il tutto, attorno all'atto di prendere a calci qualcosa. Ci sono molte persone che hanno un'autentica passione per questo sport. Divisi in due categorie: l'homo sapiens tutto urla, nervi, rutti, sudore, cui manca solo la clava; l'homo sapiens sapiens che ne fa scienza, che suda ma ha la maglietta della salute, che riconosce l'origine animalesca dell'impulso ma ne discute in termini di debolezza passionale. L'analfabetismo impera, di andata e di ritorno, ma a questi ragazzi si perdona tutto; perfino le lallazioni televisive, l'esile acume, le fuoriserie in parcheggio, le biondine delle tivù: basta che in campo scatenino l'istinto di cui, i loro adoratori, scarseggiano. Il parallelo in termini antropologici tra arene, stadi, chiese non è poi così inappropriato. Se ne dicono tante sul calcio. Mai nessuno che si accorga che siamo ormai giunti al troppo, da tanto; anzi, da troppo. Il tifo, la condivisione basica, la passione trasversale, la fede, la maglia, il numero, i colori, la curva: ma di cosa parliamo quando parliamo di calcio? Non è che non capisca la gioia della vittoria, l'amarezza della sconfitta; questo no, fin qua ci arrivo. È tutto quello che ci sta intorno, il ridicolo, il melodramma, che noto. Grazie a Dio, non sono tifoso. Io so, conosco i mandanti, chi ha costruito, architettato, inventato, inoculato, incistato; so chi l'ha reso consuetudine, chi ha costruito sul niente il tutto, chi paga e chi è pagato per perpetuare questa cattiva abitudine, chi ci guadagna, chi ne fa strumento di propaganda, chi lo usa a fini poco sportivi, chi sfrutta tutto ciò. Io so, so tutto, ma non ho le prove. Cristiano Prakash Dorigo