sabato 30 giugno 2012

Magie estive

La notte ha sognato. Ha sognato il tempo che fu, quello della sua infanzia mestrina. Erano un gruppetto di bambini ai piedi di un pendio di terra e erba che riempie lo spazio tra la strada e il cavalcavia costantemente trafficato. Usavano questi quindici metri a forma di discesa come montagnola, foresta, pista da cross e ambiente agreste: insomma, era la loro Hollywood sotto casa. In caso contrario, quando la fantasia di bambini scarseggiava a causa di svariate concause( liti in famiglia, problemi a casa, diatribe con i genitori, punizioni) si dovevano accontentare di un piazzale d'asfalto, un cavalcavia puzzolente e rumoroso, e le loro facce dagli occhi tristi in quanto consapevoli della realtà. Ecco chi c'era: Reb: un potenziale reietto con istinti criminogeni e pittorici, entrambi fallimentari, già palesi; tondetto, riccioluto. Fru: di quelli che sin da piccoli gli si legge scritto il futuro. Rettitudine, sacrificio, carriera, auto aziendale, corna alla moglie, figli alle scuole private; moretto, né bello né brutto. Gek: mangiava una pizzetta intera in un sol boccone; alto, grosso, un gigante buono; Sigala: amico di tutti in modo paritetico e misterioso; carino e solo. Sempre incerto. Ora fa il dj alle feste di amici. Ennyo-fu: un inventore; scaricava sul gioco la fantasia che la sua vita reale non aveva; faccia e corpo come ci si immagina uno così abbia. Prak: lo scrivente; un capetto un po' perfido ma sotto sotto buono; ricciolo, castano e poi basta ( cos'è, un autoritratto?) L'estate era finalmente arrivata e aveva mandato a fare in culo la scuola. Le giornate erano appiccicose, sudate, ma incredibilmente libere e giocose. Il sole di fine giugno ardeva sulla pelle e rinsecchiva le gole; dilatava il reale in una dimensione finalmente irreale, in cui anche le ipotesi più beffarde erano vere, in cui la famiglia era a casa e gli amici erano, in quegli interminabili pomeriggi, un oasi fantastica. Un bastone trovato a fatica e gelosamente conservato al riparo dai ladri di motociclette e gli consentiva scorribande su e giù per quella magica salita-discesa, diventata una famosa pista di motocross. Correvano fino allo stremo indifferenti alla polvere che seccava la gola. Solo Ennyo-fu quel giorno non correva. Era arrivato teso, imbronciato. Loro sapevano che le scene cui doveva assistere in casa erano ben più pesanti di quanto gli occhi di un bambino potessero vedere. Non sapevano cosa o come: solo che il papà litigava con la mamma e lui la difendeva; con la forza leonina della disperazione; un'interminabile, inutile, ripetizione quotidiana del male vero. Quel giorno si dovevano superare molte prove speciali: con i bastoni in mano, simulacri di manubrio, bisognava affrontare diversi salti. Tutti erano tesi, determinati; vincere rappresentava la trasformazione immediata in eroe del giorno. Cominciarono le gare e, uno alla volta, proponevano il meglio in fatto di piroette, salti, cadute. Nel frastuono chiassoso di quelle bocche urlanti, tutti presi dalle imitazioni di scoppiettanti marmitte, il tempo proseguiva il suo moto perpetuo e quasi non si accorgevano che s'avvicinava l'ora del rientro a casa, dove li aspettavano le solite prediche di mamme stufe di lavare, stirare, buttare in vasca bambini le cui fattezze erano nascoste dallo strato di polvere che li copriva. Mancava l'ultima gara, quella decisiva, che avrebbe decretato il vincitore, quando furono tutti distratti da un eccitato urlo di soddisfazione, un “ e vai!!” dai toni trionfali. Si voltarono e restarono a bocca aperta. La scena che gli si presentava davanti era di quelle, già lo sapevano, da leggenda; di quelle che anche dopo trent'anni ci si ritrova tra amici e ci si dice: “ ti ricordi quella volta che Eny-fu ha fatto….”. Lasciarono all'istante i loro manubri-moto-bastone incuranti che potessero sporcarsi o ammaccarsi; percorsero i pochi metri che li separavano dall'amico e dall'ottava meraviglia del mondo dei piccoli; l'eccitazione era mischiata allo stupore, la costernazione alla grazia, la realtà alla storia. In quel momento sei bocche spalancate contemporaneamente emisero il suono del silenzio. Sei nasi respirarono all'unisono la quieta aria estiva con calma. Dodici mani stropicciarono dodici occhi estasiati di fronte alla visione di quella che doveva rappresentare, per le loro giovani ed immacolate menti, la divinità. Da quella salita-discesa impura, come fosse un parto, un'escrescenza di legno che prima di quel pomeriggio non c'era. Come di fronte ad un miracolo si sentirono di venerare quel triangolo imperfetto che battezzarono “ il trampolino di Ennyo-fu”. Non si chiesero nemmeno come potesse averlo fatto; non gli interessava capire se fosse stabile, solido; non si chiesero quale fosse il suo significato o per quale ragione lo avesse costruito. Contava solo la magia del gesto, la maestria dell'ingegno, la gratitudine per un amico. Poi potevano sfruttarlo tutta l'estate, fare gare di tuffi, di salti; potevano usarlo come luogo per riposare, per riflettere; lì sopra potevano stare per riunioni decisionali. Era lo stemma di un gruppo di amici; un simbolo li univa, li rappresentava e distingueva ( “ chi, quelli del trampolino?”). Passato lo stupore muto spesero parole di sincero apprezzamento per ennyo-fu e, così facendo, lo condussero all'immortalità. L'immortalità degli uomini, quello che rimane anche quando non ci siamo più. Quel giorno regalarono a Ennyo-fu la consapevolezza che la vita poteva essere anche semplice e bella, e non solo rabbia e risentimento.

sabato 23 giugno 2012

Trieste 23 giugno 2012 impazzire si può parte 3 Il viaggio in treno funge da diaframma, da lento mezzo di trasporto da una dimensione all'altra. Arrivare in certe città in treno è un'esperienza: quando arrivi a Venezia, l'ultimo pezzo di laguna sembra una sospensione spazio-temporale sull'acqua; Trieste, una galleria alla volta, l'adriatico blu, le colline, la vista dall'alto, somiglia a un miraggio molto concreto. Trieste è miscellanea di miti, primi fra tutti quelli letterario e psichiatrico, entrambi strettamente umanistici, umani, e in quanto tali, imperfetti. Forse è proprio questa propensione al mito imperfetto, a farmela amare così tanto. Oggi il tema è "il lavoro che mi fa impazzire", e le esperienze che si susseguono sono caratterizzate dalla concretezza. In alcuni casi, quasi tutti a dire il vero, anche dal genio e dal coraggio, nella loro dimensione ordinaria e quotidiana. Riconversione al biologico in zona campana. Può diventare perfino conveniente, ma le difficoltà, nella zona di Caserta, sono molto complesse e pericolose. Esperienza a Casal di Principe, approccio a partire da esperienze triestine- appartamenti al posto di cliniche, ecc.-. Il ragazzo che presenta dice che allora aveva paura, e che confessava ad uno psichiatra triestino che non aveva esperienza, e che questo gli ha risposto che questa era la sua vera fortuna. La storia di come la comunità accetta i matti, pur con un'iniziale, ovvia, diffidenza. Keynes diceva che, per far fronte alla crisi, non si deve tanto inventarsi qualcosa di nuovo, ma liberarci di quella parte che ci opprime e non serve più. Esperienza della trattoria dell'amicizia di Roma, fondata dalla comunità di sant'egidio. Piccola coop di tipo b, locale. Difficoltà iniziali che sembravano insuperabili, ma insistendo il ristorante, da piccolo, è diventata un'impresa con 23 dipendenti: è un posto speciale con un sovrappiù dato dal capitale umano dei cosiddetti " matti". Finalmente Rotelli, anche se in video da Torino. Riconversione del modo di intendere il recupero e il lavoro: le istituzioni totali non producono un bene, ma hanno un uso di contenimento, di esclusione controllata. Smetterla di costruire il nuovo e gestire l'esistente, e le esistenze delle persone. La cooperazione sociale, le buone pratiche producono, anche in caso di persone fortemente compromesse, protagonismo attivo e diritto alla parola. Esperienza rete di biblioteche. Incapacità farraginose degli enti pubblici. Uscendone, grandi disponibilità. L'idea di mettere in rete tutte le biblioteche, ma anche quelle di privati cittadini, riutilizzando gli spazi esistenti. Ripensare al bene comune come contrasto alla crisi. Intervento sull'economia civica. Il 50% delle borse lavoro è cronicizzata, l'80% delle formazioni lavoro non portano a niente. Questo rischia di mantenere sacche di inutilità sociali e di spesa. Domandarsi cos'è una vita buona, a partire dal mondo del lavoro. L'ente pubblico spreca molti soldi in laboratori che non c'entrano con la vita. Uscire dal mito di autonomia, per passare alle interdipendenze positive e intelligenti. Reinvestire, ad esempio, in quei luoghi spopolati che non hanno più un panificio e una latteria, e riapro un negozio, che magari porta a domicilio i beni primari, creando non tanto profitto, ma relazione. Riaprire negozi, investire nella rete delle fattorie sociali, nell'agricoltura sociale. Esperienza del mad pride. Torino. Uscire dai circuiti autoreferenziali sanitari e sociali, e uscire, farsi vedere, incontrare. Costituzione di un'agenzia interinale a cottimo, coinvolgendo soggetti psichiatrici. torinomadpride@gmail.com Gruppo teatrale sperimentale all'interno delle scuole. Associazione che produce giochi in legno e animazione. E infine le conclusioni di Peppe. Cita, pronunciando nomi e cognomi, le associazioni assenti al forum, invitando loro e i presenti a rinunciare ai piccoli egoismi, a non cedere ai piccoli motti d'orgoglio, e unirsi. Parla della commissione, a cui è stato invitato, convocata in parlamento per ridiscutere la 180 con Ciccioli, e fa i nomi di alcuni di quelli che partecipano, dei quali prova vergogna per la comune appartenenza alla casta degli psichiatri. Invita tutti, citando Gramsci, a dire la verità, a denunciarla, sempre e comunque, perché " la verità è rivoluzionaria". Esco dal teatro Basaglia, un vento morbido mi accarezza. L'impressione di struggente piccola felicità privata, e al tempo stesso condivisa, mi strattona, mi premia con un senso di fiducia e non cede al pessimismo che tanto poi, fuori da qui, tutto e tutti sono uguali, e spesso impauriti e attaccati ai loro ruoli sociali, come soldatini ubbidienti. No, la consapevolezza che è la dispersione, la vera arma segreta di chi gestisce i poteri e impedisce la rivoluzione del diritto di essere ciò che si è. Quel che si è, è un'unicità che va tutelata, affermata, voluta e stretta forte in un abbraccio caloroso, competente e non pietistico. Il peggior torto che ci auto infliggiamo è quello di cedere al conformismo, alla innaturale fisionomia dei modelli sociali. Il sociale siamo noi, e se noi non siamo ma fingiamo di essere, il sociale diventa finzione massificata in cui, più che vivere, recitiamo la vita. Cristiano Prakash Dorigo

venerdì 22 giugno 2012

Impazzire si può parte 2

Trieste 22.06.2012 impazzire si può- parte 2 Oggi stesso caldo di ieri. Temo lo sciopero, ma i mezzi vanno. Ma c'è una manifestazione in centro a Ts: fermi una ventina di minuti. Oggi non sono in bici dopo la spremuta di ieri, e in autobus molti si lamentano dei manifestanti. Sono tempi segnati dalla prevalenza del privato sul collettivo, del fastidio sul principio. Tempi pazzi scambiati per normali. Oggi è venuta anche mia figlia e,a differenza di ieri che ero solo, l'attenzione è rivolta più verso lei e ai suoi bisogni primari. L'anno prossimo frequenterà il liceo di scienze umane, e quest'anno, come anche l'anno scorso, qui in questo incrocio di esperienze, di scienza e di umanità, ne porta a casa a carriole. Oggi i temi sono molti, e non so decidermi se scriverne dandone un accenno, o se farne solo una lista. Decido di concedermi due diversi formati: il mio personale di appunti diffusi, e quello più di cronaca. Del resto io sono qui in formazione, e mi sto formando su standard decisamente alti: così alti che poi la normalità lavorativa, al confronto, somiglia a una caduta. Ecco i temi, secchi e scarni: Si parla di riflessi costituzionalistici sulla legge Basaglia e si cita... Art. 2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,economica e sociale L’ Articolo 2 stabilisce che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. sia come singolo sia come nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Il richiamo a questi diritti ha la sua radice in una lunga tradizione storica e filosofica. Si deve in particolare ricordare il giusnaturalismo (dal latino: ius=diritto; naturalis=naturale), una corrente di pensiero sviluppatasi soprattutto in età moderna e realizzatasi nelle diverse Costituzioni cui hanno messo capo la Rivoluzione Americana e la Rivoluzione Francese. L’idea di fondo è che esistono dei diritti naturali, dei diritti, cioè, che appartengono per natura all’uomo e perciò precedono l’esistenza stessa dello Stato, che dunque non li crea, ma, appunto, li deve riconoscere e soprattutto garantire concretamente, specialmente attraverso le leggi ordinarie. Detto in altri termini: il diritto positivo (dal latino: positum=posto), l’insieme delle norme poste dallo Stato, deve conformarsi alle norme del diritto naturale che precedono qualsiasi legislazione positiva. Toccante testimonianza dell'autrice del libro " tso", la quale racconta come l'esperienza del dolore, sia quasi necessaria per comprendere e rinascere. Dibattito culturale per alzare il livello del contrasto dal basso alle lobby che vorrebbero medicalizzare ogni sintomo. Esempi degli stati dissociativi come difficoltà a stare nel momento, nella noia, nella frustrazione momentanea. Torna in mente, nel tentativo di modifica della 180 da parte di Ciccioli, che la psichiatria è il tentativo di codificare e medicalizzare tutto ciò che fuoriesce dagli schemi dell'ordine costituito. Dell'Acqua meriterebbe un capitolo a sé. È una persona autentica, che vorresti accanto sempre, che ti invita all'abbraccio, che ha l'empatia di uno che vorresti come amico, e la passione e l'intelligenza di uno che non vorresti ritrovarti nemico. Invita a convergere tutti al sito del forum di salute mentale, al fine di finalizzare e non disperdere le energie. Progetto napoletano di scambio epistolare tra studenti di scienze sociali e ricoverati all'OPG di Aversa. La testimonianza di un prete illuminato che cita il vangelo e la costituzione, e parla di cuore gonfio, di incontro, di diritti. Invita Peppe, ora pensionato, a una carriera di catechista: non gli mancano le qualità. Un professore che ci racconta che oggi 200000 persone hanno un amministratore di sostegno, con una cresciuta concezione non più assistenziale, ma di produttore di combinazioni esistenziali uniche. I verbi fondamentali: non abbandonarmi; non mortificarmi. C'è un gruppo sul palco: strumentisti e coristi, matti e savi, insieme a produrre magia musicale, armonia, pausa cerebrale per far posto ai sensi, delicatamente eccitati da un'emozione dolce. Esperienza di un tossicodipendente ricoverato in opg dieci anni, nonostante avesse una condanna di due. È riuscito, grazie al suo avvocato, a far allontanare lo psichiatra che lo aveva totalmente annientato. Un duetto di attori milanesi fa un reading paradossale su un colloquio tra un matto e una psichiatra, che tra le risate ci riporta ad assaggiare il gusto amaro del potere prevaricatore dell'interpretazione terapeutica. Aitsam di Pn. Raccontano l'esperienza di 5 appartamenti, utili a 21 persone. Peppe li ammonisce, con garbo, che quando si portano le proprie esperienze e si usa il "loro", quando ci si rivolge agli utenti, si rischia di mortificare il bene che si fa: loro siamo noi, quando li chiamiamo loro,non esistono: loro, sottolinea l'altro. Esperienza da Taormina di un rappresentante dell'antipsichiatria. Dice che non esiste la malattia mentale e che la psichiatria non risolve il problema, ma ne è facente parte. Rappresentante della psichiatria egiziana. Molto onorata e impressionata dalla storia triestina e da Marco Cavallo: hanno aperto un nuovo centro di salute mentale ad Alessandria d'Egitto e l'hanno chiamato " centro M Basaglia". Spiegazione del concetto di carta dei servizi a partire dal concetto di ricovery-guarigione, di empowerment. Vari interventi... Ero diventato un sintomo; diritto ad avere dei servizi funzionanti; volontà di uscirne; E ancora, lo stigma secondo Goffman Rovati. Filosofia e vita quotidiana. Ascoltare: vogliamo essere ascoltati; ma sappiamo ascoltare? Questo significa mettere in crisi molti dei nostri pregiudizi. Sull'art. 32 non c'è guarigione senza l'allenamento alla cultura critica. Riflessione: è la capacità di scavare intorno alle parole. Diritto alla salute è diritto alla cultura critica, e diritto a ché non ci vengano appiccicate addosso le parole. Concludo, certo di aver annoiato. Ho tagliato moltissimo di quello che è successo, che si è detto, che si è respirato. E ancora, sicuro di aver tradito la cronaca, tagliato parole, fatto scelte personali e perciò opinabili. Anche perché è difficile descrivere quello che non è parola, che spesso ci induce al piacere masturbatorio del proprio eloquio, e verbalizzare una vibrazione collettiva che fa star bene, che ti mette a tuo agio, che ti insegna senza superbia che un altro mo-n-do è possibile, è auspicabile, è necessario. Che convince con la scienza, ma soprattutto con la testimonianza diretta, che impazzire, e guarire, si può. Cristiano Prakash Dorigo

giovedì 21 giugno 2012

A Trieste impazzire si può - parte 1

21 giugno 2012, Trieste, impazzire si può Il titolo dell'evento suona quasi come un mantra,uno slogan, un auspicio; fila liscio, senza incepparsi, ma lascia una scia dal significato inequivocabile: impazzire si può, ci è concesso, ci viene data questa possibilità. La cosa che colpisce- l'anno scorso e, immutato, quest'anno- come primo impatto, è che i professionisti della salute, quelli che offrono la loro professionalità a coloro che ne necessitano, sono un unicum, un miscuglio paritario, dove non è possibile nascondersi dietro al ruolo. Questo non significa imbroglio o finzione: c'è comunque un'evidenza estetica tra chi deambula sbilenco- in questo momento, mentre sono seduto su una panchina all'ombra e scrivo col mio ipad, c'è un signore che sale una scalinata a quattro zampe, e giungono urla dai padiglioni dei reparti-, e chi parlotta forbito, solo che questo non crea una distinzione netta, come succede ogni momento nel contesto sociale di tutti i giorni, tra chi sa, e chi subisce quel sapere. La sensazione che si respira è quella della libertà di essere ciò che si è, senza venirne penalizzato. Oggi è una giornata caldissima, afosa, di molto superiore ai 30 gradi. Ho deciso, nella follia che mi abita, di venire in bicicletta. L'ho caricata in treno, e ho raggiunto il parco del dipartimento dopo essermi perso per le vie in salita di questo forno cittadino. Sono arrivato che sembravo uno zombie sudato: grondavo letteralmente sali minerali, e avevo un'espressione allucinata. Non ho più l'età, nemmeno il fisico, benché lo spirito, un po' cafone, l'abbia evidentemente negato. Mia figlia ha gli orali di terza media nel pomeriggio e questi giorni sono stati un vero e proprio intermezzo della logica e della sapienza. Credo di aver dipinto in viso una smorfia di follia, ma qui m'importa meno. Qui, come fosse una sorta di woodstock delle relazioni umane, sono perfettamente a mio agio. C'è chi teorizza che una maggior vicinanza relazionale taglierebbe in modo netto il disagio di vivere. Mi sento vicino a questa teoria, immerso come sono, nella sua dimostrazione pratica. Nel pomeriggio molti interventi. Peppe Dell'Acqua parla poco ma dice molto. Esordisce dicendo che pur pieno d'emozione, non consentirà a questa di fregarlo- l'accenno riferito all'anno scorso, quando fece un collasso in sala-, e continua dicendo che in quel momento, comunque, sentiva di amare tutti i presenti. Lella Costa dopo di lui, parla, cita, recita, ma soprattutto si commuove e piange: ma non di tristezza, di dolore, quanto piuttosto di una gioia semplice: quella di sentire quell'energia, di potersene far investire senza temere nulla. E poi molti altri, pazienti con storie durissime, psichiatri, operatori vari. Tutti raccontano dolore, ma soprattutto l'uscita da questo. Perché è possibile, probabile. Ma non si pensi a un ambiente triste, chiuso, claustrofobico; anzi, racconta di eccellenze sparse, rare, ma non impossibili. E soprattutto racconta che impazzire si può.

mercoledì 20 giugno 2012

L'infelicità del pendolare e la follia accettabile

Per diverse ragioni questa settimana ho preso il treno delle 21.30. I treni dei pendolari hanno una loro fisionomia amicale, composta di volti che si riconoscono, pur appartenendo a persone che non si conoscono. Io riconosco decine di facce, alcune delle quali entreranno senza saperlo nel prossimo libro che scriverò, nei post del blog, nelle righe estemporanee dei social. Da sempre, quando vedo una persona, immagino una storia. Sempre sul filo della follia, appena di qua della caduta, visto che sono persona che scrive, mi posso permettere biografie inventate, storie mai accadute. I volti che vedo a quest'ora, a differenza dei soliti treni, si differenziano per una piega di stanchezza più evidente, una rassegnazione più marcata, un sovrappiù di sfiducia. Domani, venerdì e sabato sarò a Trieste per la tre giorni di "impazzire si può". Ne parlerò in modo più diffuso nei prossimi giorni, ma la domanda che mi faccio stasera, in questo treno, circondato da queste facce, è: ma non è un'esistenza da pazzi questa? Quando ci siamo arresi, quando abbiamo accettato di rimanere schiacciati in meccanismi senza senso, quando abbiamo rinunciato, e quando ricominceremo, a sognare di vivere una vita felice?

domenica 17 giugno 2012

Cosmic residence

Non sono uno che rimpiange il tempo perduto: fatalista o meno, quello che sono mi piace, ed è frutto, anche, di tutto quello che non mi è piaciuto: e in questo caso, mi si dia fiducia, si abbonda. Questa premessa per dire che oggi, tra le notizie che mi hanno colpito- mi si risparmi per una volta la crisi, la Siria, l'europeo, il merdoso resto di infamie quotidiane-, l'abbattimento dello stabile che ospitava il cosmic, mitico santuario pagano della mia gioventù un po' bruciata ma anche molto vissuta. A dire il vero ci sono stato poche volte in pellegrinaggio con gli amici di allora: tardo capelloni come me, prima di approdare ai capelli corti del punk,dark, post punk e categorie giovanili varie. La notizia mi coglie di sorpresa, anche perché non sapevo fosse ancora in piedi. Mi sono perciò concesso un po' di ricordi, di nostalgia, di ripensamenti. Ricordo le citroen, i balli di quella che per noi era musica afro cubana, delle acrobazie degli ultraterreni BD e TBC, della tenerezza di tribù di senza dimora generazionale: i primi anni 80 erano tra la fine e l'inizio di due mondi totalmente separati: dalla rivolta e rivoluzione mancati, a quello che venne poi ribattezzato come il decennio dell'edonismo. Noi eravamo smarriti come solo gli adolescenti possono essere, incapaci di tradurre, capire, leggere il nostro tempo, manifestando perciò solo sintomi. Quanto è dura vivere pienamente l'età in cui la costruzione del futuro è aperta a qualsiasi possibilità, e quindi se ne ha paura, e ci si gioca male la propria vitale intelligenza, e si inseguono spesso i sogni sbagliati. I sogni sono quasi sempre sbagliati, sono gli scarti che non vogliamo o non possiamo gestire razionalmente, e ce li giochiamo in solitudine, di notte, vestiti da eventi incomprensibili. Ma i sogni ad occhi aperti degli adolescenti sono un'altra cosa: sono il mondo che vorremmo e non c'è, sono i desideri irrealizzabili. Il cosmic era un sogno concreto, il villaggio di una tribù che non sapeva altro che ballare, sudare, sperare di continuare per sempre una notte dai ritmi afrocubani e dai suoni drogati da equalizzatori geniali. Abbattono la mistica sede del cosmic per farne un residence. Ecco, suggerirei al me adolescente di allora: è questa la realtà. Cristiano prakash dorigo

sabato 16 giugno 2012

Diaz

Nel mio precedente libro, avevo scritto un racconto su Genova. Volevo privilegiare la prospettiva soggettiva di un evento collettivo, e dire, in un momento ancora caldo di emozione, che tutti, manifestanti e forze dell'ordine, sono persone perfettibili e tendenti all'esperienza dell'errore: e in alcuni casi, in modo evidente, con istinti bestiali e agiti spietati. Sono uscito da poco dal cinema dopo aver assistito ad una proiezione personale: ero solo in sala, e non mi era mai successo prima. Mi sentivo padrone, e come tutti i padroni, solo. Devo confessare che il film non mi è piaciuto. Secondo me va visto, benché durissimo e a tratti faticosamente sopportabile nella crudezza, perché quello che è successo è di una gravità imperdonabile. E tuttavia, secondo me, in certi momenti è proprio brutto, caricaturale, scontato. Se l'intento era di far male, di fissare e rendere indimenticabile un momento storico incivile e brutale, c'è riuscito. Se invece l'obiettivo era fare arte, se era l'immortalità, l'universale, allora no: siamo lontani. Cristiano prakash dorigo

venerdì 15 giugno 2012

Calcio, froci, distacco

Il mio rapporto col calcio è molto semplice: m'importa ma sega. Detto questo, quanto segue può suggerire la superflua ingerenza, o quasi lo snobismo di chi predica in quanto non coinvolto. Forse è così, forse. Forse invece, per osservare le questioni della vita, occorre un po' di distacco. Quando l'Italia vince, provo una piccola felicità passeggera; quando perde, un leggero dolorino estemporaneo: in entrambi i casi, dura meno di un'eiaculazione precoce. Pensavo all'ultimo episodio con Cassano. Si fa la domanda sbagliata ma in realtà giusta, all'uomo sbagliato ma in realtà giusto; ebbene, tutti sappiamo già il risultato in anticipo, ma ci divertiamo, ci indigniamo per finta, ci riempiamo la bocca per interposta persona di parole come frocio, ci immaginiamo che un culattone approfitti della caduta del sapone di Cassano, e via con immagini di questo tipo che ci fanno sorridere e dimenticare, per un momento, che stiamo di merda, che stiamo fallendo, che siamo dei cavernicoli evoluti grazie al sapone e al deodorante. E non riesco a dimenticare che Cassano o Buffon o chi per essi, guadagnano come decine e decine di lavoratori, non sanno niente della vita, non giovano a nessuno, se non a quel sistema che ci vorrebbe soddisfatti e mansueti per un goal. Ma io sono pesante, non mi abbandono mai alla risata, che è terapeutica, che fa bene, che rilascia endorfine. No, io rido. Ma non di queste cazzate. E non sono indignato, ma appena un poco al di fuori della logica comune. E non mi sento solo, anzi. Cristiano Prakash Dorigo

mercoledì 13 giugno 2012

Esami di terza ed educazione da manuale

Primo giorno d'esami di mia figlia, prova di italiano. Quattro ore di tempo per scrivere il tema. Tra poco torna a casa e mi racconterà; per l'occasione ho preso ferie, vorrei starle vicino, ma non troppo. C'è un'immagine molto efficace di quello che dovrebbe essere il ruolo del genitore, durante la pre e l'adolescenza: essere presenti, pronti, disponibili, ad accogliere, ma anche a lasciar andare. In questo periodo preparatorio, calma, scoramento, ansia, felicità, aspettative, illusioni, paura, si sono mischiate in modo convulsivo, smascherando parimenti debolezze e forza. Se penso a me in relazione a mia figlia, vorrei più di ogni altra cosa diventare un genitore che le consenta di essere quello che è, che l'aiuti a orientarsi, che si sottragga quando gli viene fatto capire che è meglio stare in disparte. Ma questa è una figura retorica, da manuale di psicologia, da esame di pedagogia. La realtà è altro: è attrito, incapacità di trattenersi, è troppo amore che fa diventare ridicoli, è desiderio che sia felice, è apprensione; in realtà, è tutto ciò sì, ma in maniera mitigata, in modo non troppo invasivo, è educazione di manica larga, è dialogo fecondo e insulso, è visita a musei e mostre, è consigli di lettura, è discorsi schietti. Insomma, io mi diverto molto e mi piace stare con lei, pur essendo tendenzialmente un solitario. Il discorso sulla scuola sarebbe troppo lungo e lo tralascio. Ora è pomeriggio e concludo, non prima di aver fatto un esempio su quanto, comunque sia, mia figlia è, suo e mio malgrado, irrimediabilmente figlia di suo padre. Tornata a casa mi ha raccontato delle tracce: ce n'erano tre e lei ha scelto quella del diario. Mi diceva che una sua cara amica, molto brava per altro, abbia scelto la traccia che sapeva essere la preferita dell'insegnante, per non essere penalizzata nel voto. Lei invece, benché lo sapesse, ha scelto quello che le andava. In questo, mi fa da specchio. Cristiano Prakash Dorigo

lunedì 11 giugno 2012

La ritmica del testo

Spettabile blogspot, scrivo per sottolineare una problematica che forse potrà sembrare effimera, ma non lo è. E non sostengo questo per difendere le mie idee, ma per l'importanza della questione: la letteratura. Non sto a disquisire sulla letteratura, sulla sua storia, regole, tradizioni. E nemmeno in particolare sui miei testi che a tutt'oggi non so se ne siano degni. Dico in generale, come attenzione propositiva. E vorrei iniziare dall'impaginazione. L'impaginazione è tutto, in particolare per quanto concerne le poesie, le canzoni, o i presunti tentativi di costruirne una. Così come la punteggiatura, il ritmo di un componimento breve, lo dà l'a capo. l'endecasillabo ad esempio, se viene scritto tuttoattaccato, che roba è? Il blog tradisce questo intento; sembra cedere a regole di efficenza, rispondere a criteri di produttività, e compatta il testo. E allora che fare? Si riesce a risolvere la questione o si deve scrivere rinunciando alla propria intenzione ritmica? Sarebbe molto importante per me saperlo, capire, approfondire. Giusto per sapermi regolare, per sapere cosa mi posso permettere di postare, magari dopo titubanze, incertezze, tormenti. Vorrei venisse rispettato il formato che piace a me, che ho deciso, e che solo così può esistere. Grazie, Cristiano

Da quando non ci sei

Da quando non ci sei Tutto è come prima Niente è più lo stesso Mentre la vita gira Nell'illusione di verità Nell'apparenza solida Io sono testimone Lascio passare il tempo Mi illudo non mi manchi Son bravo a raccontarmela Eppure a tratti cedo Mi concedo alla tua assenza Ho bisogno di scriverti Ho bisogno di pensarti Ho bisogno di lasciarti andare Ho bisogno di scansarti Son diventato bravo sai A sfiorare l'essenza A scansare l'ovvietà Ad abitare i miei alibi Ho ridotto tutto all'osso Tagliati i miei bisogni Mi nutro della certezza Che basta poco e non basta mai I conti con la realtà Li rimando a domani L'unica certezza adesso È che non ci sei più Ho bisogno di scriverti Ho bisogno di pensarti Ho bisogno di lasciarti andare Ho bisogno di scansarti

mercoledì 6 giugno 2012

Decalogo di buone ragioni per

Ricevo da Gino e pubblico volentieri ... Decalogo, ovvero dieci buone ragioni per comprare "homo sapiens nord est" 1- la prima ragione è che si tratta di un libro insolito, raro, e che perciò si presta al vanto di possedere un libro insolito e raro 2- per comprarlo si deve aver prima assaggiato, in quanto si è assistito a un reading, performance, ecc., e quindi si sceglierà scientemente 3- è un libro che non ha possibilità di entrare in classifica, di vendere molto, di sfondare. E per questo può offrire a chi lo possiede la sensazione di possedere una rarità 4- è un libro indie, fuori dai circuiti commerciali classici in quanto l'autore ha insistito per essere lui stesso a proporlo e distribuirlo 5- descrive un territorio, ma in realtà racconta anche la condizione umana nella sua dimensione profonda, al di là della sua condizione geografica 6- si inoltra negli abissi, nei sintomi, nei labirinti umani, concedendo alla leggerezza americana di Calvino uno spazio minimale 7- è lontano dagli standard piacioni e moderni, non è di genere, non fa ridere, non ha colpevoli da scoprire 8- parte dal presupposto che il nostro peggior nemico coabiti nello stesso nostro condominio, e presuppone che siamo noi stessi 9- sostiene che per rinascere si debba prima morire, e che questo sia possibile nonché auspicabile 10- l'autore merita

lunedì 4 giugno 2012

Anonima scrittura

Cara anonima, Come sto? Io chiedo a me stesso come sto; e invece di sottolineare la stranezza, la considero un’azione normale, per non dire addirittura virtuosa. E allora provo a rispondermi.  Quando vivo e penso e agisco, spesso lo faccio a compartimenti stagni. Da quando me ne sono accorto cerco di essere più attento a questo sistema così disarticolato. Guardo con la lente d’ingrandimento i pensieri, gli agiti, le parole, il corpo che comunica. Osservo i meccanismi non per cambiarli, ma per conoscerli. Questo mi fa essere lucido: non razionale o cerebrale; semplicemente più accorto e sensibile.   Non so cosa fare. Scrivere, leggere, comunicare. Con chi, perché? Per non sentirmi solo? Ma io non mi sento solo nel senso comunemente inteso. Io lo so che sono solo; da molto, e non solo me ne sono fatto una ragione, ma lo apprezzo sinceramente, la sento una condizione di privilegio. Come un dato di fatto ineluttabile che non può che essere scaturigine. Ripartire da questa consapevolezza, intendo.   Vorrei riuscire a parlarti della verità; almeno di una parte di questa; di avere la sicurezza che quello che sostengo, lo è. Ma non ne ho alcuna che possa ritenere sicura, incontrovertibile, palese e certa. Se non quella appena enunciata: sono solo e da ciò riparto. Ne ho invece molte di estemporanee, incerte come i fenomeni che le hanno provocate. Credo infatti che ciò che avviene per reazione sia contingente al fatto, e non un qualcosa di fondante, solido. Io ti ferisco e tu reagisci ferendomi a tua volta. Ho mal di pancia e critico un’altra persona solo per questo. Mi sento arido e vuoto e rimetto tutto in discussione.   Avrei voglia di scrivere molte pagine sulla crisi dei quarantenni e sono fermamente deciso a farlo. Sogno quest’operazione come il mio primo romanzo. Un romanzo, io. Non mi sembra vero. Fino a poco tempo fa credevo non sarei mai riuscito nell’operazione: non ho il fiato, sono vittima della mia stessa urgenza di raccontare piccole storie; perché ce ne sono troppe, di storie da raccontare. Ognuno di noi è portatore di una breve storia e la curiosità mi spinge, onnivoro e ingordo, a scriverle tutte. Se ti vedo camminare, pensare, se osservo come vesti, se ti guardo negli occhi, se stiamo un po’ insieme, trasformo quel che sei in una piccola storia. Non proprio quel che sei; quel che io immagino, ascoltandoti e guardandoti. Che ti devo dire, lo so che a dirlo così sembra un’ossessione. E invece non lo è. È un'ulteriore accettazione: quella di essere soli di cui ti scrivevo prima, è comune a tutti; questa è più personale, e concerne il mio essere uno che scrive. Non vorrei venir frainteso: non dico che scrivo bene o male, che sono uno scrittore o vanità simili: sono più semplicemente una persona che ha trovato il suo modo di convivere con le proprie inclinazioni in modo creativo. Non ho pretese, non devo convincere chicchessia, non mi interessa diventare un personaggio. A me interessa unicamente avvicinarmi il più possibile a ciò che sono, e dopo tanti anni, molti tentativi, innumerevoli fallimenti, ho trovato il modo. Se penso che mi hai scritto per errore, e che, guarda un pò, la questione non si è fermata lì, ma ha continuato fin qui, mi convinco che le coincidenze sono casuali anzichenò. Ora chiudo e invio. Sai dove trovarmi.  

domenica 3 giugno 2012

Venezia, report e magna magna

Ho visto in ritardo il servizio di Report su Venezia, e forse sono fuori tempo massimo, eppure a mio avviso val la pena di non far finta che niente sia stato detto. L'impressione che ne ho ricavato, è che il malcostume, se non proprio il malaffare, sia l'abitudine consolidata, accettata, taciuta, e nemmeno più messa in discussione. Confesso che vedere la città in cui sono nato, in cui ho vissuto, cui presto tornerò e che amo, che consideravo diversa e unica nella sua specificità, e con questo intendo anche come laboratorio politico e civile, ridotta a un comitato d'affari de noantri, compresi quelli che da anni si fregiano di essere alternativi a non so cosa, mi ha ferito in modo definitivo. Chiedere risposte, pretendere spiegazioni, volere che tutto cambi, a questo punto, e con questi protagonisti mi pare un'ingenuità perfino più imperdonabile di aver creduto che un altro modo fosse possibile. Capisco quelli che si attaccano al primo che passa e promette di essere qualcos'altro, e lo votano. Di certo non si potrà rivotare un sindaco che sorride dinnanzi al disastro, che alza le spalle e ammicca come si parlasse di argomenti che non gli competono. Di certo sarà dura pensare che esiste un'opposizione credibile, e che i cosiddetti alternativi non abbiano saputo, salvo poi agitarsi quando conviene. Temo che anche per Venezia, come più in generale per l'Italia tutta, tapparsi il naso non sarà sufficiente a fermare la puzza di marcio; frase a effetto bruttissima, ma quanto mai attuale e veritiera. Mi chiedo se la democrazia sia ancora il governo del popolo, lo strumento per determinare e attuare le proprie scelte, o se non sia piuttosto un modo di scegliere questo o quel gruppo di potere. Una domanda che credevo non mi sarei mai dovuto fare, le cui risposte sono sempre più prossime allo sconforto. Cristiano Prakash Dorigo