Anonima
Anni
fa avevo scritto una serie di non so che, che avevo titolato “ciclo anonime”.
La cosa curiosa è che nessuno capiva se fossero davvero parte di un ciclo
epistolare, o se invece fosse un espediente letterario. A distanza di qualche
anno confesso di non saperlo nemmeno io, e, dopo lunghe riflessioni, di aver
capito che non mi importa. Quello che importa è scrivere, comunicare,
interagire, relazionare. Le ripropongo sul nuovo blog perché mi paiono, a
tutt’oggi, interessanti.
…
Ieri
ho ricevuto la seguente lettera. Credo sia stata spedita all’indirizzo
sbagliato. Leggendola bene, però, mi è sembrata una sorta di lettera aperta; a
chiunque.
La
inoltro perché se qualcuno dovesse riconoscere il mittente, magari può
avvisarla/o.
Mi
auguro, così facendo, di non tradire un segreto, di non esporre qualcuno che
non lo vorrebbe, al pubblico.
Non
so se faccio bene, ma lo faccio.
Come
del resto, spesso, non so in senso lato.
Caro
amico *********, ti scrivo brevemente come sta andando la mia vita.
Ti
chiedo solo di pazientare e di accettare questa mia, come fosse un quadro
astratto: parole come colori, pensieri come forme informi, significati duttili
adatti all’interpretazione soggettiva da critico dell’arte (altrui).
Allora
vado e butto là queste pennellate.
Lo
so, ci vediamo poco e quando quel poco si verifica, siamo sopraffatti
dall’ansia del non tempo.
L’ultima
delle ricchezze per poveri come noi, artisti mancati, esseri umani piegati dal
vento che abbiamo sempre preso in volto respirandolo tutto con l’ingordigia dei
bimbi che esperiscono l’odore della vita in divenire; ci siamo fatti mancare
anche l’unico dei tesori possibili: il tempo per stare bene, scambiarci carezze
a piene mani con leggerezza e amore.
Corro,
non ho tempo, sono vittima del mio alibi e sto talmente male da non avere più
la forza di stare bene anche soltanto per dei brevi frammenti.
Io
do la colpa ai tempi moderni, alla televisione, al governo, ai preti, alla
mancanza di spiritualità e ad un’altra valigia piena di concause.
Ma
d’altronde non è facile accettare la bruttura, la secchezza delle fauci e
dell’entusiasmo perduto, col tempo, quando ho iniziato a capire che mai avrei
capito.
E
tu, dentro quali gabbie nascondi la tua verità?
Non
ti mancano le sensazioni di stupore, la bocca aperta e gli occhi sgranati così
per niente?
E
il cuore che batte e la felicità che trabocca e la tristezza che s’alza
verticale?
Ti
vorrei stringere così forte, e ridere e piangere e dire che mai mi rassegnerò a
quest’anestesia dolorosa e sorda.
Ma
non so più fare gesti d’amore.
Non
li so contenere più.
Restano
solo intenzioni abortite.
L’istinto
messo a tacere perché maleducato e sconveniente.
Vorrei
partire per arrivare da te e dirti che vorrei, in quel momento, soltanto essere
lì con te.
Insomma,
sto cercando di dirti che mi sento oppressa da quest’inutile lottare.
Lottare
contro chi o cosa; lottare in modo che possa attaccarmi all’idea che c’è un
nemico.
Ma
io so che la mia unica amica e nemica sono io, e che tutto origina da qua
dentro.
E
spendo energie e fatiche per cercare di dimenticarmene, senza però riuscirvi.
E
talvolta avrei bisogno di te per raccontarti tutto questo; perché di ritorno
avrei la tua delicatezza, il tuo pensiero, la tua instabilità.
E
mi renderebbe felice, condividere.
Ma
non so più essere felice; ho eretto le difese e non passa più niente; né noia,
né gioia.
E
questo mi consente di non essere nemmeno infelice.
Sono
diventata un essere anafettivo per paura.
Un’utente
bulimica di tivù, di discorsi senza nutrimento, di pensieri troppo farciti di
autocommiserazione e autoreferenzialità.
C’è
un senso di inutilità che mi pesa e mi schiaccia senza sosta.
Un
vortice che mi coinvolge e rapisce perché vuoto.
Il
desiderio di pienezza che mi stomaca.
Vorrei
poter non pensare che ogni cosa non fatta è perduta; e che ogni errore mi
stordisce amplificando come un’eco il mio rammarico.
Vorrei
non aver bisogno di scriverti questa lettera ma sarebbe soltanto l’ennesimo
bluff.
Perdonami
se ti coinvolgo in questa mia intima dichiarazione di disfatta ma non so fare
altrimenti.
Procrastinare
la verità sarebbe riproporre ancora la messinscena che mi ha ridotta così,
stremata e condiscendente al desiderio.
La
schiavitù sembra essere la mia sola possibilità di salvezza.
Solo
così mi sentirò come tutti gli altri.
Concludo,
non preoccuparti. Lo faccio non tanto per dirti che non ti devi preoccupare per
me, che non sto pensando di morire, che non mi dispero più di tanto, tanto meno
in modo eclatante: anzi, magari riuscissi ad andare oltre i pensieri, passare ai
gesti, rompere qualcosa, piangere di gusto, disperarmi come dio comanda. No,
sto qui e scrivo agli amici, come fossi inerte e incapace di una qualsiasi
reazione.
Stamattina
ho aperto la finestra, era ancora prestissimo, stava facendo chiaro. In giro
non c’era nessuno e l’aria mi ha colpita in faccia: un’aria fresca, allegra,
fragrante. E ho teso un po’ l’orecchio per ascoltare il nulla, così bello e
raro. C’erano gli uccellini che cantavano, non so se salutavano me o se
comunicavano tra loro; ho sentito una delicata commozione, un respiro di vita,
un accenno di speranza. Ebbene, a quell’esordio di piccola gioia, mi sono
sentita stupida. Una stupida che non riusciva a capire se quella fosse l’alba,
o il tramonto.
…
Naturalmente,
ognuno è libero di interpretare questa lettera come crede.
Inoltre
mi piacerebbe, nel mio prossimo post, rispondere.
Ma
la mia vita è un forse, e magari domani sarà un però.
Cristiano
Prakash Dorigo
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