giovedì 26 aprile 2012

confessione anonima


Anonima

Anni fa avevo scritto una serie di non so che, che avevo titolato “ciclo anonime”. La cosa curiosa è che nessuno capiva se fossero davvero parte di un ciclo epistolare, o se invece fosse un espediente letterario. A distanza di qualche anno confesso di non saperlo nemmeno io, e, dopo lunghe riflessioni, di aver capito che non mi importa. Quello che importa è scrivere, comunicare, interagire, relazionare. Le ripropongo sul nuovo blog perché mi paiono, a tutt’oggi, interessanti.
Ieri ho ricevuto la seguente lettera. Credo sia stata spedita all’indirizzo sbagliato. Leggendola bene, però, mi è sembrata una sorta di lettera aperta; a chiunque.
La inoltro perché se qualcuno dovesse riconoscere il mittente, magari può avvisarla/o.
Mi auguro, così facendo, di non tradire un segreto, di non esporre qualcuno che non lo vorrebbe, al pubblico.
Non so se faccio bene, ma lo faccio.
Come del resto, spesso, non so in senso lato.


Caro amico *********, ti scrivo brevemente come sta andando la mia vita.
Ti chiedo solo di pazientare e di accettare questa mia, come fosse un quadro astratto: parole come colori, pensieri come forme informi, significati duttili adatti all’interpretazione soggettiva da critico dell’arte (altrui).
Allora vado e butto là queste pennellate.

Lo so, ci vediamo poco e quando quel poco si verifica, siamo sopraffatti dall’ansia del non tempo.
L’ultima delle ricchezze per poveri come noi, artisti mancati, esseri umani piegati dal vento che abbiamo sempre preso in volto respirandolo tutto con l’ingordigia dei bimbi che esperiscono l’odore della vita in divenire; ci siamo fatti mancare anche l’unico dei tesori possibili: il tempo per stare bene, scambiarci carezze a piene mani con leggerezza e amore.
Corro, non ho tempo, sono vittima del mio alibi e sto talmente male da non avere più la forza di stare bene anche soltanto per dei brevi frammenti.
Io do la colpa ai tempi moderni, alla televisione, al governo, ai preti, alla mancanza di spiritualità e ad un’altra valigia piena di concause.
Ma d’altronde non è facile accettare la bruttura, la secchezza delle fauci e dell’entusiasmo perduto, col tempo, quando ho iniziato a capire che mai avrei capito.
E tu, dentro quali gabbie nascondi la tua verità?
Non ti mancano le sensazioni di stupore, la bocca aperta e gli occhi sgranati così per niente?
E il cuore che batte e la felicità che trabocca e la tristezza che s’alza verticale?
Ti vorrei stringere così forte, e ridere e piangere e dire che mai mi rassegnerò a quest’anestesia dolorosa e sorda.
Ma non so più fare gesti d’amore.
Non li so contenere più.
Restano solo intenzioni abortite.
L’istinto messo a tacere perché maleducato e sconveniente.
Vorrei partire per arrivare da te e dirti che vorrei, in quel momento, soltanto essere lì con te.

Insomma, sto cercando di dirti che mi sento oppressa da quest’inutile lottare.
Lottare contro chi o cosa; lottare in modo che possa attaccarmi all’idea che c’è un nemico.
Ma io so che la mia unica amica e nemica sono io, e che tutto origina da qua dentro.
E spendo energie e fatiche per cercare di dimenticarmene, senza però riuscirvi.
E talvolta avrei bisogno di te per raccontarti tutto questo; perché di ritorno avrei la tua delicatezza, il tuo pensiero, la tua instabilità.
E mi renderebbe felice, condividere.
Ma non so più essere felice; ho eretto le difese e non passa più niente; né noia, né gioia.
E questo mi consente di non essere nemmeno infelice.
Sono diventata un essere anafettivo per paura.
Un’utente bulimica di tivù, di discorsi senza nutrimento, di pensieri troppo farciti di autocommiserazione e autoreferenzialità.

C’è un senso di inutilità che mi pesa e mi schiaccia senza sosta.
Un vortice che mi coinvolge e rapisce perché vuoto.
Il desiderio di pienezza che mi stomaca.
Vorrei poter non pensare che ogni cosa non fatta è perduta; e che ogni errore mi stordisce amplificando come un’eco il mio rammarico.
Vorrei non aver bisogno di scriverti questa lettera ma sarebbe soltanto l’ennesimo bluff.

Perdonami se ti coinvolgo in questa mia intima dichiarazione di disfatta ma non so fare altrimenti.
Procrastinare la verità sarebbe riproporre ancora la messinscena che mi ha ridotta così, stremata e condiscendente al desiderio.
La schiavitù sembra essere la mia sola possibilità di salvezza.
Solo così mi sentirò come tutti gli altri.

Concludo, non preoccuparti. Lo faccio non tanto per dirti che non ti devi preoccupare per me, che non sto pensando di morire, che non mi dispero più di tanto, tanto meno in modo eclatante: anzi, magari riuscissi ad andare oltre i pensieri, passare ai gesti, rompere qualcosa, piangere di gusto, disperarmi come dio comanda. No, sto qui e scrivo agli amici, come fossi inerte e incapace di una qualsiasi reazione.
Stamattina ho aperto la finestra, era ancora prestissimo, stava facendo chiaro. In giro non c’era nessuno e l’aria mi ha colpita in faccia: un’aria fresca, allegra, fragrante. E ho teso un po’ l’orecchio per ascoltare il nulla, così bello e raro. C’erano gli uccellini che cantavano, non so se salutavano me o se comunicavano tra loro; ho sentito una delicata commozione, un respiro di vita, un accenno di speranza. Ebbene, a quell’esordio di piccola gioia, mi sono sentita stupida. Una stupida che non riusciva a capire se quella fosse l’alba, o il tramonto.



Naturalmente, ognuno è libero di interpretare questa lettera come crede.
Inoltre mi piacerebbe, nel mio prossimo post, rispondere.
Ma la mia vita è un forse, e magari domani sarà un però.
Cristiano Prakash Dorigo

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