venerdì 27 aprile 2012

anonima risposta senza risposta





allora, risposi così, senza rispondere.


Cara anonima,
inizio subito dicendoti che sono la persona cui  hai spedito una lettera per errore.
Almeno così credo. Lo credo perché dal nome del mittente, non mi pare di conoscerti.
Ma se ci penso bene, quanta gente presumo di conoscere salvo poi accorgermi, prima o poi accade con tutte, di non poterlo affatto dire? A meno che non si voglia intendere, per conoscenza, quella formale: nome cognome indirizzo professione.
Per cui, se è vero che non ti conosco, questo vale anche per la maggior parte delle persone con cui mi relaziono normalmente.
Non essendo sicuro di esserci riuscito, ti confido che questa premessa serve ad allontanare l’imbarazzo tra noi; come dire che, pur non sapendo nulla di te, nemmeno come sei  fisicamente, la tua lettera mi ti ha fatto conoscere, sotto certi aspetti, meglio di quanto la fisicità dell’incontro, consenta.

Ti sto scrivendo queste prime righe dalla stazione di San Donà di Piave.
Ci sono per ragioni assolutamente irrilevanti ai fini di questa mia, ma mi piaceva l’idea di farti una cronaca di questo mio-nostro tempo.
Perché sono davvero convinto che una lettera possa andare oltre la contingenza spazio-tempo e riesca, in senso metafisico, a renderlo un unicum pur essendo oggettivamente staccato e asincrono.
Scrivo adesso qui in stazione a San Donà di Piave, poi andrò a Mestre, poi tornerò a casa, batterò a computer queste parole che poi tu leggerai lì dove sei: il tutto, però, all’interno di un contesto spazio-temporale unico; per lo meno dal punto di vista della suggestione emotiva che evoca.
Insomma tu leggerai, quando e se vorrai, questa mia, “dopo” che io l’avrò scritta; ma è come se tu lo facessi “durante”, mentre cioè, io la sto scrivendo. C’è un’eternità intrinseca nelle parole, una sorta di magia che le conduce all’immortalità. La tua lettera ne è testimonianza: indipendentemente dal momento in cui l’hai concepita e scritta, scivola attraverso il tempo senza esserne intaccata.
Sono seduto su una panchina di marmo da solo. Attorno a me poca gente, com’è sempre nelle piccole stazioni.
La sera ha oscurato il cielo, le luci illuminano di giallo binari e marciapiedi, e aggiungo che tutto s’intona perfettamente allo stile-stazione.
E’ piena primavera, c’è una temperatura estiva di giorno, fredda di sera; il marmo della panchina, quindi, è ancora caldo del sole della giornata ma sta diventando freddo dal vento pungente che soffia forte, come lo sbuffo di chi è stufo e così facendo spera di buttar fuori le ingombranti angosce che gli stazionano in pancia.
Mentre aspetto i pensieri vengono interrotti dalla voce meccanica dello speaker-robot che indica arrivi e partenze.
E così anch’essi, i pensieri intendo,  come i treni, arrivano, partono, si fermano: la mente è come una stazione; i pensieri come treni; noi sempre i passeggeri.

Il treno che dovevo prendere è in ritardo di mezz’ora, per cui salirò su quello successivo, un regionale.
Guardo l’ora perché voglio capire quanto mi manca; per poter scrivere o almeno leggere, ma i minuti, adesso, hanno il passo veloce per cui smetto.
Poi m’alzo e cammino. Controllo la gente in attesa. M’aggiro con agilità e leggerezza tra loro.
Ecco l’annuncio dell’arrivo.
Puntuale.
Ho voglia di leggere e di starmene dentro a questi pensieri che mi fanno compagnia, e magari continuare a scriverli.
Non riesco a immaginarti fisicamente, ma mi son fatto delle idee su come stai.
E’ da un po’ che osservo ragazze e donne.
Passami queste che sembrano generalizzazioni e che non rappresentano il mio fine.
Da queste osservazioni nascono pensieri che poi, poco per volta, impercettibilmente, diventano una realtà. Cosicché ci credo, come fosse una teoria letta su di un libro attendibile anziché fantasie create da me.
Vedo quegli sguardi persi fuori dai finestrini degli autobus. Oppure concentrati dentro le pagine di libri. O impegnate in telefonate così intense che sembrano importanti come il destino.
E in quasi tutte vedo dolcezza e amarezza, come chi è disillusa già da un po’.
Non so capire se la verità è in quegli occhi; o se invece non sia la mia immaginazione.
Mi rendo conto che perdersi in entusiasmi così auto-indotti come i miei non contempla, tra gli ingredienti, la realtà. Bastano le proiezioni e i film e romanzi che scaturiscono ormai inarrestabili, neanche fossi un’artista professionista che scrive per mestiere.
Ma dicevo dello sguardo delle donne che incontro e osservo ogni giorno.
Quelle che hanno superato la trentina, in particolare.
Nel volto, anche se bello, hanno sovente disegnata come una smorfia, pur tentando di dissimularla con generosi sorrisi.
E la smorfia disegna ed esprime il disincanto, la fine dell’illusione.
Quello di chi ha già capito, con largo anticipo, che la vita è tutta qui; solo questa, fatta di autobus strapieni, di una quotidianità stritolante, asfittica, senza la possibilità di variare.
Una vita senza curve, con la fatica del resisterle per non precipitarvi dentro senza paracadute, in balia di una discesa grigio topo, come il cielo di novembre.
Molte hanno quell’espressione, e per quasi tutte vorrei fare qualcosa: raccontare barzellette, ballare, fare strip-tease; portare l’allegria del giullare e la leggiadria del play boy che, fortuna loro, mai sarò.
Forse basterebbe dirgli parole dolci, mentire anche per solo un minuto, e dire che non è finita qui; che non c’è solo la tivù la sera.
Ma non ne ho la forza, il coraggio, e forse nemmeno la voglia.
Amo e odio la forza di voi donne.
Ammiro, non senza invidia, la capacità di stare sempre al cospetto della verità pur desiderando il sogno. Non come noi uomini– ma chi sono io per parlare di “voi” e di “noi”?-, che  possiamo che stare nella realtà solo pochi attimi, e fuggire di continuo verso proiezioni fasulle, verso glorie inutili, verso effimere affermazioni.

Salgo sulla carrozza, la terzultima di testa.
Dentro m’avvolge un intenso odore d’urina.
Cerco un posto e lo trovo di fronte a un nero africano in Italia da molto tempo; così immagino che sia, guardandolo appena un po’.
Tolgo la giacca, l’appoggio sul sedile, esitando appena nell’accomodarmi, a causa dell’odore cui non mi sono ancora abituato.
Sul sedile a destra una bionda da sola. Ha una minigonna e due cosce larghe, un maglioncino e un seno abbondante.
Continuo a scrivere sull’agendina: quest’atmosfera ha il sapore dell’ispirazione. Poi tiro fuori anche il libro e metto giù lo zaino. Mando un sms ad un amico raccontandogli dove sono, in compagnia di chi e di quale odore.
Dopo un po’ il vociare di una triade di neri s’alza e invade il suono monotono del treno, impadronendosene.
Parlano un inglese dalla pronuncia poco anglosassone. Devono essere di nazionalità diverse, per comunicare tra loro in quel modo.
Ad un certo punto giungono due bigliettai e inizia una discussione che sa di consuetudine.
Ognuno recita la sua parte.
Uno dei neri dice a quelli che “sono rassisti, perché controli biglietto solo a me”. L’altro risponde monocorde “ fammi vedere il biglietto”. Gli animi s’agitano, la fatica solca i loro visi.
Si scambiano insulti ancora a livello lecito, senza esagerare. Ognuno cerca di stufare l’altro con consumata abilità.
Ad un certo punto uno dei neri tira fuori l’abbonamento. Il bigliettaio vuole il documento. Lui dice no. Si rivolge agli amici dicendo che no, “let come police”; fa venire polisia, carabinieri, guardia di finansa, non m’interessa. Poi scendono e farfugliano qualcosa. Il treno parte e i due bigliettai, col piè veloce, ci passano accanto nervosamente.
Penso ai neri e alla fatica di essere neri.
Ai ferrovieri, stufi anch’essi di questa guerra continua.
Penso alla stupidità, perfettamente maschile, di faticare per sfidarsi di continuo.
Io sento soltanto una voglia di pace, di stare alle cose con morbidezza, di affrontare la mia vita con attenzione, senza perdere energie in scontri di potere da pusillanimi.
Ma sono anch’io un maschietto da poco, e non ci riesco mai.

Ti capisco, cara amica –posso chiamarti così? – quando accusi la stanchezza di una vita trascinata tra continue finzioni e sfide e confronti.
Ma perché? Perché facciamo così?
Perché siamo straripanti di pensieri poco educati, che ci hanno sempre suggerito di non prendere nemmeno in considerazione e di cestinarli non appena possibile?
Perché le nostre impurità e imperfezioni, si scontrano con modelli usciti dai corsi di marketing, e questo è davvero triste?
Perché se siamo così, ci siamo fatti convincere che è sbagliato?
Mi concedo una riflessione ingenua e spavalda, per poi vergognarmene: credo che religioni e politica esercitino così il loro controllo su di noi.
E anch’io ho sofferto molto per questo; ma ora no, ora so come farci il calcolo e calibrare le energie che mi servono per rendere il mio dentro e il fuori, un contesto tendente all’armonico.
Che poi non è affatto detto che ci riesca; anzi, quasi mai. Però ne ho toccato con mano la fattibilità. E fedele all’idea che se un fenomeno si manifesta una volta, in teoria, può ripetersi; e mi ci faccio cullare, tra consapevolezza e illusione.
E un po’ alla volta sto imparando a smussare gli angoli, ad avere pazienza quando non ci riesco, a considerare le ingorde felicità, e le avvolgenti tristezze, come fenomeni passeggeri.
Sto cercando di dirti che le tue parole, aldilà del senso stretto e rigoroso, e anche, consentimi, molto logico, sono state per me fonte di emozione.
E non per la loro efficacia lessicale, o per il fatto che fossero scritte con cavillosa pertinenza; no, mi hanno colpito perché trasmettevano una tensione vissuta, un coinvolgimento intrinseco. Che se vuoi, concedimelo, è la differenza che fanno le parole del letterato senza talento, da quelle meno ammaestrate del talentuoso, che sono lasciate andare come figli cui, ad un certo punto, bisogna concedere autonomia.

Quante cose sto dicendo. Tutte così poco inerenti alla tua bella lettera.
Sto arrivando in stazione e ormai la tensione da battibecco di prima sta svanendo.
Mestre, al solito, trabocca di gente in attesa di qualcuno che arriva o che parte.
O di  che devono partire per chissà dove, mete sconosciute che danno a stazioni e aeroporti un alone di mistero.
Scendo circondato da gente, ovunque.
Imbocco il sottopasso, il tunnel che unisce le due parti della terraferma veneziana.
Un pezzo di terra di nessuno che è sempre piena di gente. Un simbolo delle nostre paure moderne, atte ad allargare le distanze circospette che teniamo gli uni dagli altri.
Fuori la sera ha riassunto il controllo della situazione e proietta ombre e umori silenziosi.
Incrocio una coppia di neri: lei coi tacchi, le forme tonde e sode; lui sembra essere una comparsa di Spike Lee, con un impeccabile, pacchiano completo bianco e cappello appena storto. La loro andatura è chiassosa di tacchi. Lei: dinoccolata e morbida. Lui:  muscoli scattanti e posa gangsta.
Poi una coppia nostrana. Capelli lucidi, odore di deodorante sparatosi addosso con l’irruenza dei giovani.
Mi sovvengono le parole di un’amica che mi raccontava, in riferimento all’odore della pelle, che i neri considerano la nostra odorante di morte, tanto è impercettibile.
M’avvio verso la mia meta mentre penso a queste parole come alle ultime.
Quando arriverò a casa e le trascriverò e spedirò via computer.

Gli ultimi pensieri riguardano il senso di tutto ciò; o forse la sua mancanza.
Mi chiedo cos’abbia scritto per te, e la risposta è niente.
Niente di pertinente con la tua precedente.
E allora, e poi chiudo, spero almeno ti abbia fatto compagnia.
Se così non fosse, credimi, mi spiacerebbe molto.
Adesso sai dove trovarmi, se vuoi.
Ciao

Cristiano Prakash Dorigo

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