mercoledì 18 aprile 2012

2001, inizio della decade-nza




Il duemilauno appartiene alla storia dell’umanità.
Questa ha uno strano rapporto col tempo: spesso non si ha la netta percezione di viverla, se non accorgersene, a posteriori, di averla attraversata.
E questo particolare anno ha fagocitato le storie e stigmatizzato il nuovo millennio, posticipando il suo significato metaforico e metafisico, quello del nuovo millennio, all’anno successivo al duemila, offuscandone così il ruolo di protagonista.
E la storia deflagra in me in modo esplosivo, unendo, mischiando la mia storia personale con quella di tutti gli altri. Provo a raccontarla brevemente imbrogliandola, tradendo la cronologia temporale in favore di quella sensoriale.

Il duemilauno è storia condivisa, è di tutti, è marchio indelebile, in quest’epoca di marketing e di merchandising.
La geografia della storia, in quest’anno, immaginando di avere una mappa, ci porta per mano da un posto all’altro dell’occidente ferito a morte.
In tutto il mondo, duemilauno è New York, torri gemelle, svolta degli equilibri di potere, è “caduta verticale con polvere”. Più a sud, in Argentina, i padroni scappavano coi soldi prima che il tracollo colpisse mortalmente un intero popolo proiettandolo, in un attimo, dalla civiltà al baratro della miseria, col conseguente imbarbarimento scatenato dallo sgomento della povertà.
Il duemilauno è anche storia locale, in veste globale; in Italia, duemilauno è Genova, è G8, è morte e repressione, è abuso pornografico del potere.
È anche vetrina internazionale, riscatto dal provincialismo di cui l’Italietta dell’azzurrità e del sorriso, soffre; è stata l’occasione per urlare rabbia, per ostentare forza, per far dire, da ambo le parti, vittime e carnefici a seconda della prospettiva da cui si osserva l’esistenza,  che finalmente sì,  “siamo anche noi protagonisti!”. 
A maggio Berlusconi stravince le elezioni, giusto in tempo per preparare il gisette, dare al suo ministro di fiducia, Scajola, quello della compravendita con vista Colosseo a sua insaputa, l’ordine di proteggere la zona rossa, grazie anche alla collaborazione del vicepresidente Fini, che staziona nella sala operativa delle forze dell’ordine a gustarsi lo spettacolo osceno.
E poi, stringendo geo-grafica-mente la visuale, i morti uccisi dal petrolchimico, da una sentenza mostruosa nella sua banalità e parzialità, nel suo mortificare la speranza di chi si aggrappava a qualcosa che potesse restituire un senso, una ragione, all’inspiegabile logica mortifera dell’economia, di cui si sentivano vittime.
E infine, il focus su un indirizzo di Venezia, sestriere Dorso Duro, settembre.
Sono a casa di mia madre. La malattia, e ancor più la cura, l’hanno ridotta alla semi-incoscienza costante. È seduta in poltrona, le gambe avvolte in diversi strati di tessuto per contenere la continua perdita di liquido che sembra acqua;  liquido amniotico di ritorno, che spurga: che espelle un mare di male.
La tivù è accesa, a tramortire il silenzio che altrimenti occupa tutto lo spazio in modo insopportabile.
I miei occhi rincorrono quella distrazione, come a fuggire dagli altri sensi che invece stanno a contatto con la dolorosa presenza che mi ha generato.
I miei occhi vedono l’aereo contro la prima torre, poi l’altro aereo contro l’altra torre. Poi il crollo verticale di una e poi dell’altra. Poi polvere, una quantità impressionante, talmente tanta, penso, da far sparire, coprendola, quella visione irreale, impossibile, impensabile.
Penso ai morti, sento una fitta ad una gamba, poi all’altra, poi il mio crollo. Torri e gambe crollano in simultanea.
Sento l’intensità del dolore crescere, permeare il mio corpo in modo violento. Sento che una buona parte del mio dolore è privato, intimo, a pochi metri da me, e ha il nome e la forma della persona che mi ha messo al mondo.
Il mio solitario lutto di polvere copre di vergogna, di pudore, tutti quelli che sto vedendo in televisione perché li supera, li annienta, benché ne percepisca la fratellanza, la composizione basica di male e paura.
Il duemilauno è storia.
È la storia di tutti ed è la mia storia.
La storia la si scrive, la si racconta ed è perciò sempre interpretazione soggettiva.
A riguardare il duemilauno dieci anni dopo, l’imbarazzante sensazione di non poter affermare con coscienza che la storia serve da lezione.
Semmai, a confermare che io so, ma non ho le prove. 

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