domenica 25 marzo 2012

presentazione libro Alice Banfi


domenica prossima i super market nord est ed Elena, tornano in scena in occasione della presentazione del libro di Alice Banfi "sottovuoto". posto indirizzo, data, ora  e testo che ho scritto per l'occasione.

San Donà di Piave, domenica 1 aprile alle ore 18.00, nell’auditorium del Centro delle
Associazioni, via Svezia 2 


Quando abbiamo formato il gruppo, pensato alla trasmissione “spifferi”, eravamo partiti da uno slogan un po’ pomposo, un po’ retorico, pretenzioso: “dare un senso alla vita”: come se la domanda che ci portiamo dentro, a cui non sappiamo rispondere, quel “chi sono io?” che da millenni ci tormenta, non esistesse. Ma eravamo un gruppo di adulti frastornati da una serie di suicidi di giovani ragazzi e pensavamo di assumerci la responsabilità di non essere tra quelli che si girano dall’altra parte, che fan finta di non vedere; volevamo poter ammettere che non riuscivamo a capire.
E allora abbiamo pensato che l’unico approccio fosse quello di provare a interagire coi giovani, chiedere a loro quali domande avessero, cosa avrebbero voluto, desiderato, che fosse magari appena un po’ più in là delle apparenze, così forti e stringenti in occidente, e in particolare in quella immensa provincia diffusa che è il nord est.

Io non conosco Alice, o meglio, l’ho incontrata di sfuggita al festival dei matti di Venezia. Non la conosco, ma l’ho conosciuta leggendo i suoi due testi che raccontano parte della sua vita.
Il libro in forma di diario può essere una rivoluzione: lo è se, come nel suo caso, racconta quel che è senza filtri, omissioni, giri di parole. Lo è quando smaschera la realtà: a maggior ragione e con struggente forza, quando questa è il prodotto di cattive abitudini, protratte più per convenzione che per convincimento.

Leggendo i suoi libri non si diventa più colti o più saputi: si esplora un universo oscuro, un abisso che sembra non avere una dimensione: ci si avvicina all’insopportabilità. 
La libertà di scrivere quello che si pensa, che si ricorda, che si è vissuto, senza freni, senza pudore di circostanza o di maniera: siamo in grado di accettare tutto, finanche le più squallide bugie, tranne la versione precisa di un resoconto, che riguarda i servizi che ci dovrebbero accogliere in determinati momenti di fragilità.

Alice invece ci racconta una realtà mostruosa, lontana da tutto quello che crediamo sia la vita per come noi ce la rappresentiamo: lei si è flagellata la carne con le lamette, gli organi interni con ogni tipo di veleno, pur di sparire, di allontanarsi da un dolore che scoppia e da cui fuggire, superandolo: sembra pensare che se un nuovo dolore è abbastanza forte, coprirà l’altro, divenuto ormai insopportabile. Ma ci ricorda anche che non si può fuggire da sé; al massimo conviverci, abituarcisi.
Bisognerebbe leggere Alice, starle accanto, ascoltare, dirsi che non si hanno sempre risposte pronte, e che chi predica facili soluzioni, lo fa in malafede, o in ignoranza, o per la paura dei propri limiti.
Alice ci racconta il suo dolore non celandolo, offrendolo nudo e osceno, eppure così vero, così autentico, da diventare riconoscibile, quasi affrontabile. E ci dice che il sistema, e cioè nel caso della sofferenza mentale, la psichiatria, dà spesso risposte stereotipate, seriali: a tale sintomo, tale trattamento. Ma dimentica troppo spesso che dietro al sintomo c’è una persona, e spesso, che si tratta di una persona sofferente.
Alice ci racconta di lamette che strappano la pelle, di cibo divorato e poi vomitato, di provocazioni al limite della sopportazione, alzando sempre più il tiro, buttandoci addosso la sua angoscia, il suo male, senza spiegarceli. L’unica consolazione a questi suoi gesti estremi, sono sì le terapie, ma soprattutto le persone: quelle che ti ascoltano, che ti guardano, e stanno là con te perché hanno capito che in certi casi, solo così si può; se non risolvere, almeno condividere.
Non vorrei però che questo fosse scambiato per catechismo o ingenuità: sono vent’anni che faccio l’operatore sociale, e mentre leggevo mi chiedevo se sarei riuscito a sopportarla una persona come lei. Ma poi capivo che quello era solo un movimento di superficie, di difesa: la domanda che Alice mi muoveva era un’altra, e cioè se riesco a non nascondermi dietro al potere che ho nei confronti delle persone con cui lavoro; se sono in grado di guardarmi dentro e dirmi che, poco o tanto che sia, sono sempre capace di dare quello che posso in quel momento; se so accettare l’impotenza e se ho il coraggio di dichiararla a chi si aspetta da me un qualche sapere, una soluzione, un alleggerimento della pesantezza che la schiaccia.
Credo che Alice chieda solo onestà, autenticità, talvolta un abbraccio, oltre alla certezza, indispensabile, di avere vicino uno che sa fare il suo mestiere.
E concluderei aggiungendo poche altre brevi suggestioni.
La mia vita è stata a lungo un continuo sbandamento alla ricerca di qualcosa che sentivo mi mancava. Ho avuto la fortuna di scavare fino a consumarmi le unghie: certo, in modo diverso e molto meno doloroso di Alice, ma credo di capirla.
Una delle forme di autolesionismo, magari non palese ed evidente come quello di Alice, consiste nella distanza tra quello che siamo e quello che vorremmo essere, o ancor peggio per come pensiamo gli altri ci vorrebbero.
La vita ha certamente risvolti dolorosi, ma anche stupende meraviglie: se si capisce che stare male o stare bene è comunque transitorio, impermanente, allora si è capaci di vivere.
Io l’ho capito forse tardi, ma non è mai tardi in realtà: bisogna accettare tutto, e solo così facendo, la vita prende nuovi colori e assume nuove forme. Ma non vorrei essere frainteso: per accettazione non intendo dire che si debba essere passivi, subire soprusi, non cercare giustizia o non cercare di cambiare quello che non va.
No, non intendo proprio questo: intendo il non rifiutare, non eludere, non nascondersi. Intendo l’accettazione di quello che si è.


venerdì 23 marzo 2012

fighe pelose e fighe depilate


Fighe pelose e fighe depilate

Una premessa: il titolo ha a che fare con un esperimento cui accennerò in seguito, destinato a deludere tutti: quelli che normalmente visitano il blog, in quanto non si riconosceranno in un titolo così volgare; e delusione speculare quelli che non verrebbero mai qui, ma che digitano in google le fighe cui sopra.

In realtà volevo scrivere di ieri sera a Cà Tron: in occasione della prima serata ufficiale di riapertura post occupazione, ho presentato e letto il mio ultimo libro “homo sapiens nord est”.
La giornata per chi non fa questo mestiere, a meno che uno non si prenda ferie, è preceduta da un normale giorno di lavoro: questo significa che si arriva all’appuntamento un po’ stanchi, pieni di quello che era successo prima, lontani cioè dalla poetica di cui si vorrebbe essere portatori ( come desiderio, almeno).
Eppure, accade sempre qualcosa che è difficile spiegare a parole, perché è una specie di salto quantico: ci si trova all’improvviso in una dimensione diversa, e senza soluzione di continuità, rispetto a quella immediatamente precedente: la stanchezza scompare e si viene posseduti dall’adrenalina che sostiene corpo, mente, sentimenti, emotività, che secca la salivazione, che rende euforici e pronti, e al contempo distratti, ricettivi, attenti e perduti. 
Cà Tron è la sede di urbanistica dello IUAV di Venezia, e consiste, per chi non l’avesse mai visto, in un palazzo veneziano che si affaccia sul Canal Grande, dalle parti di San Stae.
Con me c’erano: Federico, che ha presentato il libro; Elena ed Elvira, che hanno letto con me alcuni brani tratti dal libro, i supermarket ( Franco e Umberto), ad accompagnare le parole con un tappeto musicale. Dopo aggiustamenti tecnici, spostamenti vari, ritardi di prammatica, ci siamo lasciati andare alla serata.
Devo ammettere che tecnicamente ne abbiamo fatte di migliori: del resto non era un teatro, ma una grande sala di un palazzo nobile veneziano. Eppure come atmosfera, come scambio, come sensazioni, devo riconoscere che è stato molto bello e intenso, seppur con leggerezza. Ad ascoltarci un pubblico sorridente, disponibile, contento di esserci. Gli argomenti di cui abbiamo parlato: del libro, degli altri libri, degli scrittori, dell’editoria, dello spirito indie del mio libro inteso come oggetto industriale, delle relazioni umane, e molto altro.
Non succede spesso di sentirsi così a proprio agio in questi frangenti: eppure accade, e compensa tutte le volte che così non è stato.
Di questo vorrei ringraziare chi era con me, chi ha organizzato, chi era presente, chi non ha potuto esserlo pur desiderandolo.

Perché allora quel titolo?
Alla fine, mentre si chiacchierava amabilmente di questo e di quello, Federico mi raccontava di come, volendo, si può incrementare a dismisura le visite al blog: basta titolare un post come l’ho titolato oggi, e si è letteralmente invasi da visite. Lo dico senza timor di smentita: non sono interessato a ricevere molte visite, ma sono proprio curioso di vedere se funziona.
Se così fosse, vorrebbe dire che il sospetto che ho, e cioè di non avere le qualità e le attitudini e le voglie per diventare una blogstar, uno scrittore di successo, un personaggio famoso, troverebbero conferma.
E se nonostante il titolo, così non fosse, vorrebbe dire che il sospetto che ho, e cioè di non avere le qualità e le attitudini e le voglie per diventare una blogstar, uno scrittore di successo, un personaggio famoso, troverebbero conferma.

Cristiano prakash dorigo 

mercoledì 21 marzo 2012

poesia, articolo 18 e amore

Tra i classici del futuro probabilmente troverà posto Roberto Bolaño, almeno dal poco che posso capire io di classici.
Oggi sarebbe un giorno speciale per la poesia, ma non è una giornata poetica: se escludiamo che è il primo giorno di primavera, c'è ben poco di primaverile nell'aria. ieri ad esempio il governo ha sancito la fine del regno di bengodi per molti lavoratori che guadagnano in mille quello che guadagna il presidente del consiglio attuale da solo, e che nonostante ciò, ci ha convinti tutti che il privilegiato non è lui né i suoi ministri.
Va detto che in confronto al suo predecessore, questo sembra, se non un santo, uno serio: ma ci voleva così poco, che.
C'è poi chi continua a confondere Israele con gli Ebrei, chi crede che essere perplessi nei confronti del primo ed essere molto vicino ai secondi, sia contraddittorio.
Insomma: Bolaño, se diventerà classico, lo sarà più per i suoi romanzio che per le sue poesie, e pur tuttavia ne pubblico qui una.
Vi aspetto domani sera a Cà Tron dove la poesia non sarà tanto ciò che diremo e faremo, quanto lo stare insieme, il farci compagnia, lo scambio di energie in questi tempi tristi.
... Ma nonstante ciò, continuo ad avere fiducia nell'amore...


Il deserto dei bambini

il nostro primo sogno è una ragazza
-sempre una ragazza-
che cammina per le strade di cristallo
della clinica dove è nata.
Dossier di bambini tremanti
per tanto viaggiare. Dossier di lune alla finestra.
di coppie fugaci, utopiche,
baciandosi le mani.
Il nostro primo sogno è una ragazza, eccetera,
che cammina per nature morte mormorando per sé
-la pazzia ci allontanerà dalla sinistra moderata,
la speranza elettrizza i più disperati:
idee retrattili, soavi come la collezine di foto
che un adolescente conserva
per le improbabili notti di via libera,
ma che lo aiutano.
Il nostro primo sogno è un oroscopo divertente, pessimista,
una ragazza che legge il giornale
un pomeriggio estivo,
le nubi che passano sopra al mare
(ti credo, ti credo, piove infinitamente),
e un altro che pensa: "la durezza del mio sguardo"
mentre se lo sgrulla
dopo avere pisciato sul muro.

Roberto Bolaño y Bruno Montané,

mercoledì 14 marzo 2012

fughe


Sono nudo o quasi; forse solo in mutande e corro.
Salgo le scale spaventato, sono carico d’adrenalina che pompa i muscoli rendendoli molle poderose.
C’è una porta socchiusa in cui entro trafelato, sudato, spossato. Dentro poca luce.
Mi fermo per rifiatare, mani appoggiate alle ginocchia.
Il fiato copre ogni rumore. Il respiro è breve e avido, in sincrono con il battito del cuore.
Poco dopo sento i passi salire veloci le scale. Sento porte sbattere, suole scivolare, gesti esperti carichi di determinazione.
Sono al piano di sotto, stanno raggiungendo questo.
Arriveranno, lo so, lo sento.
Mi aggiro per la casa disabitata, piano osservando tutto, sapendo che dovrò cogliere da un particolare apparentemente insignificante il segnale che mi consentirà di continuare la mia fuga.
Uno sgabuzzino con una finestrella.
Entro, controllo la grandezza della stessa: sì, ci passo, penso.
Pur essendo al quinto piano di un caseggiato del tutto simile a quelli parigini, so che quella è la mia sola possibilità di salvezza.
La finestrella è sorretta da due catenelle arrugginite attaccate a due gancetti messi all’estremità della stessa.
Sento dei rumori alla porta d’ingresso. Devo agire con lucidità senza farmi tradire dal terrore.
C‘è quest’ansia che mi alita addosso da dentro, che m’impedisce di far ordine, d’immettere la logica nel mio pensare, che diventa tachicardico, generato da reazione e non da volontà.
Tolgo prima la catenina di destra, poi quella di sinistra, tenendo con l’avambraccio la finestrella evitando di farla sbattere al muro.
La porta intanto resiste, ma sta per cedere.
Mi aiuto con le braccia per passare attraverso la finestrella: ci sto, sembra tagliata su misura per me. Non so cosa c’è oltre, ma mi fido. Senza guardare altro mi volto e rimetto tutto a posto: i ganci rientrano al loro posto tra le catenelle.
Non so come, ma scendo verso la strada.
Non so come ma ora sono in mutande che corro in una strada non più di Parigi, ma di Mestre centro.
Non so come, ma so che loro sono lì al quinto piano del condominio parisienne che mi vedono scappare.
Non so come e perché scappo; non so da chi.
Il giorno dopo, sono vestito.
Il giorno dopo sono nudo, scoperto, in carne viva per l’ansia.
Il giorno dopo sono pronto a riprendere la fuga perché so che da qualche parte, all’improvviso, sbucheranno dal nulla e m’inseguiranno.


La sveglia mi sveglia.
Ho il respiro affannato, come chi abbia corso tutta notte.

domenica 11 marzo 2012

amare senza condizioni



Mi capita a volte di entrare in contatto con una dimensione interiore che senza ombra di dubbio è la verità. Lo è senza bisogno di provarlo, di dimostrarlo: è così e basta.
Mi è successo anni fa in campeggio: è successo altre volte prima, molte dopo, ma ne ho scritto solo in questa occasione. 
Perché ne scrivo, essendo con tutta evidenza un’esperienza intima? Lo faccio perché credo che quello che ci succede non sempre è chiaro, e quando veniamo in contatto con dimensioni che ribaltano la prospettiva, che sono inusuali; e inoltre, perché chi ha l’occasione di esperirne, non può che condividere. Talvolta si è traboccanti di grazia e amore, e quando è così, non si può far altro che donare.
Altra ragione, è che non è quasi mai così: si è spesso lontani da quello che si sente, e anche quando ci si ascolta, spesso si colgono frustrazioni, rabbia, e altri sentimenti fortemente connaturati alla negatività.
In sostanza, scrivo queste poche righe per raccontare un momento di grazia, apparentemente lieve, inconsistente, eppure di una forza esplosiva.
 ...
Era estate, in campeggio.
Era una sera normale, senza premesse particolari che potessero far intuire qualcosa. 
Siamo andati in uno dei bar interni per vedere un film su schermo gigante.
C’è stato un attimo in cui il brusio multilingue – se ne parlavano almeno sette là dentro – è diventato non più confusione ma condivisione, e ho sentito di amare profondamente tutti, nessuno escluso.
Vorrei specificare meglio un fenomeno inspiegabile: per poco, un minuto non di più, e forse anche meno, ho amato in modo indistinto ogni essere umano che casualmente mi circondasse.
Mi ha colpito la semplicità e la complessità fuse assieme.
E la paura della responsabilità di un simile sentimento, che mi appariva insopportabile per più di qualche istante.
Subito dopo, infatti, ho sentiti risalire in assetto di guerra i meccanismi di difesa che di solito mi sostengono, manifestatisi, appunto, con un sentimento di incapacità; precisamente, sentivo che non sarei stato capace di sostenere a lungo quel che provavo.
Sebbene lo provassi, lo potessi quasi toccare, ne vedessi la semplicità; al tempo stesso mi appariva troppo grande e pesante da sostenere.
Accidenti: un’esperienza mistica, un assaggio di universalità sconfinata dei sentimenti, e io me la faccio sotto; ne ho paura.
Ma, pensavo poi, verso tardi, cosa ho imparato, cos’ho intravisto?
A cos’è servito un insight di tale potenza?
È servito, mi dicevo in un momento di solitudine feconda, a farmi vedere quanto sto in difesa e nascosto, di solito. 
Sono morto, sentimentalmente frigido, quando non sono così!
Credo di amare, e invece sono infarcito di proiezioni su come si dovrebbe fare, ad amare.
Che qualità d’amore ho sentito, allora?
Lo definirei, un amore senza condizioni, costrizioni, ragioni.
Poi, durante la stessa serata, sentivo passare la moltitudine di persone di ogni provenienza ed età, li sentivo ridere, discutere, parlottare, e sentivo, invece del solito fastidio un po’ snob, felicità: ero felice di quella felicità; leggera, circostanziata, circoscritta, condizionata, ma concreta.

Cristiano Prakash Dorigo

sabato 10 marzo 2012



In fondo la morte non è che un passaggio, credo. Da molti anni penso alla morte: non in modo ossessivo, non con terrore, ma concedendole, sempre più, un posto d’onore, come in attesa di un ospite.
So che molti evitano di parlarne e perfino di pensarla, ma avendo avuto modo di meditarla a lungo, io la considero ormai normale.
È morto Moebius, uno degli artisti della mia gioventù. Mi spiace, ma non per lui: spiace a me, che non potrò più goderne le novità, pur potendo contare sull’immortalità di ciò che ha fatto. 
Ecco, penso questo: penso che chi muore non sta male; quello è riservato a chi rimane, che ne sentirà la mancanza, che si struggerà per la sua assenza, che avrà probabilmente rimorsi per non aver fatto tutto quello che avrebbe potuto.
Non sono in grado di dare consigli, ma vorrei comunque dire qualcosa rispetto a questo: non è necessario fare tutto quello che si pensa si dovrebbe fare; lo è, invece, osservare con consapevolezza quello che si fa e quello che no, cercando di individuarne le cause vere, profonde, senza infingimenti. 
Solo attraverso l'attenzione, la vita può essere piena, completa, senza rimpianti. E solo così si può accettare la morte: propria e altrui.

Cristiano Prakash Dorigo

giovedì 8 marzo 2012


Ho ripescato questo vecchio post risalente ad un periodo in cui i blogs erano molto frequentati, prima di facebook e twitter. Allora ci si frequentava senza sapere che aspetto e che età si aveva: eravamo solo nomi o nicks, senza corpo, senza volto.
Era anche prima che iniziassi a scrivere libri: ora il mio amico è più soddisfatto, anche se sa, perché ad un amico si dicono certe cose, che scrivere libri, per molti, non cambia le cose.
Lascio tutto com'era allora.
L'amico si chiama Luigi.



Caro amico,
visti affetto e stima che ci legano ormai da anni, meriti una risposta esaustiva su questa faccenda del blog, che tu, come hai avuto modo di scrivermi in almeno un paio di occasioni, detesti. Essendo però questa una lettera aperta, che pubblicherò anche sul blog, è forse opportuno spiegare l’antefatto.

Antefatto:
il mio amico non ce l’ha col blog in sé; ce l’ha con me in particolare. Dice infatti che questa forma di scrittura, perché il mio è un esercizio di scrittura più che un diario, mi toglie tempo ed energia a quella vera e seria, che lui apprezza davvero. E aggiunge senza enfasi, parlandone come di un qualcosa che è, non che sarebbe in un’ indefinita accezione dubitativa, una forma di compensazione immediata. Sembra dire, con le sue parole, che è facile così: ci si fa conoscere in giro, si fanno delle visite di cortesia che poi, di solito, vengono contraccambiate; si crea così facendo una sorta di vincolo basato su una reciprocità malata; una specie di scambio, di baratto: io do un po’ a te, tu a me. E paragona tutto questo scambio di affettività, non come una libera circolazione di singole persone libere che vanno e fanno e scrivono quel che davvero vogliono e pensano, ma piuttosto di un’accolita di frustrate/i che si scambiano pacche sulle spalle:” hei ciao, come va? Oggi ho mal di pancia; ohhh poverino, fossi là ti massaggerei io; oggi sono triste; ma dai, suvvia, ci siamo qui noi”.
Il mio amico però è una persona intelligente e, lo ripeto, non dice, o meglio sottintende, tutto ciò perché è contrario all’azione consolatoria o all’amicizia o amore nati in rete; no, no, lui ce l’ha con me che invece di concentrarmi sulla scrittura, mi faccio drogare da questo strumento che compensa, a mò di placebo, la difficoltà di confrontami con la vera scrittura e la vera critica e la vera frustrazione.
Non ricorda la cifra esatta, mi dice, ma ogni anno ci sono una marea di prime opere; spesso di scarso valore artistico e,cassius clay, perché non potresti anche tu esordire; o provarci, almeno.
Questo, credo, voglia dire il mio amico.

E adesso?
E adesso come la mettiamo? Lui ha alcune ragioni assolutamente legittime.
La prima, inoppugnabile, invincibile, bella e fresca, è quella di volermi bene e di volere, perciò, il mio bene. E anch’io gliene voglio.
Ci sentiamo davvero amici e fortunati di sentirci tali e gustiamo il privilegio di sentirci tali come chi sa che è in possesso di una rarità.
L’amicizia è rara e preziosa in quanto, così come l’amore e poco altro, accade. La si può cercare, volere, desiderare, bramare, ma accade di suo, con un’indipendenza vicina allo snobismo.
E allora, adesso, qui, devo espormi e dire come la penso per davvero.
Lo faccio perché lui se lo merita, e perché in tre mesi e mezzo, più di mille passaggi meritano riguardo.
La prima cosa che dichiaro è che non sono il tipo adatto al compromesso. Perciò mai mi adatterò alla regola imperante e alle ruffianerie di circostanza.
Devo per altro ammettere che in effetti, di ruffiani, non ne ho incontrati molti in giro per la rete.
Ho invece incontrato persone senza talento, riferito alla scrittura; ma non esiste uno statuto per cui si debba scrivere solo se provvisti di talento. E perciò questa è una considerazione personale e non vincolante ad alcunché.
Quindi, riassumendo quanto appena scritto: scrivo perché mi piace e spero di farlo al meglio.
Poi, devo ammetterlo, da quando ho iniziato a postare sul blog, la mia scrittura preferita, quella dei racconti e del “progetto romanzo” che riposa in una cartella sul pc, latita e langue.
Ed è altrettanto vero che ho poco tempo e se quel poco lo dedico interamente al bloggare, il resto va a puttane.
Vero, inconfutabile.
Verità.
Quindi, caro amico e bloggers di passaggio, credo limiterò la mia presenza ad un paio di volte la settimana al massimo.
Sì, perché è inutile che neghi che questo di bloggare fa presto a diventare vizio, dipendenza.
E io non voglio che mi succeda questo. Assolutamente no, porca trottola.

Conclusioni:
sono una persona con un’età anagrafica che mi vorrebbe adulto. Sono sufficientemente equilibrato, nel senso che i miei disequilibri sono sotto controllo.
Dentro me convivono istinto e sentimento e intelligenza che si contendono il primato, senza però voler male a chi di volta in volta soccombe.
Sono socialmente introdotto per finta.
Le mie anarchie lavorano silenti ma efficaci.
La mia rivoluzione cresce e contagia senza chiasso.
La scrittura è strumento che domo senza sapere come.
Le parole non mi mancano mai anche se bramo al silenzio.
Vorrei continuare a scrivere seriamente e a bloggare allegramente.
Vorrei che il mio amico capisse e so che così sarà.
Quasi tutto quel che voglio l’ho a portata di mano e spesso non so quel che voglio.
Sono un paradosso di un metro e settantacinque circa; o forse un centimetro o due in meno.
Sono un quarantenne con ancora più capelli neri che bianchi.
Sono un bambino nei sentimenti e un adulto nell’esprimerli.
Sono un padre pieno di dubbi e traboccante di buona volontà e amore.
Non odio più ma non so ancora se perché è così spiacevole tollerare dentro qualcosa di cattivo.
So bene che ogni sentimento è in me e che il bello e il brutto sono gli estremi della stessa cosa.

Quindi:
bloggherò con parsimonia rinunciando a diventare il più famoso e apprezzato blogger del mondo perché in fin dei conti non mi interessa più di tanto.
Dedicherò più energie alla scrittura che pubblicherò, forse mai, o su di un libro o niente.
Mi spenderò nella ricerca di “chi sono io ?” come ho sempre fatto da un bel po’ di anni a questa parte.
Visterò gli altri blog e commenterò solo se convinto, e non per ribadire che ci sono; e sono vivo, anche.
Sei soddisfatto, almeno un po’, caro amico?
Attendo una risposta.

Cristiano Prakash Dorigo

sabato 3 marzo 2012


Freddo zero gradi


Il freddo zero gradi invade ogni spazio, ingravidandolo. Uscendo da casa è lì che aspetta. Sembra quasi avere una personalità e un carattere caldo, per controbilanciare le emanazioni gelide.
I miei occhi lacrimano col freddo. Il viso pallido e le mani violacee sbucano dalla sciarpa e dal cappotto marrone spinato taglio sartoriale comprato al discount.
In mano le chiavi dell’auto faticano a centrare la serratura, ubriache di movenze geometriche, rigide d’inverno.
Non porto il cappello perché altrimenti mi rovinerebbe i ricci messi a tacere dal gel. Sì, perché sono ribelli e dispettosi; e allora, giusto per insegnar loro la disciplina, li incollo con quella gelatina trasparente e appiccicosa: “ e qui comando io, e questa è casa mia!”. La mia casa, il corpo, sopra cui loro sono ospitati: che non rompessero troppo le palle!.
Per alcuni anni li ho portati lunghi; anzi luunghissssimi. M’arrivavano fino a quasi i polpacci, da bagnati; da asciutti, meno: massimo fino al coccige; molle retrattili che si tirano e ritirano, boccoli di spago nero sottile arrotolato su di sé.
Una volta, l’altra volta che li avevo tenuti lunghi- da diciottenne ribelle con l’urlo sulla pelle, l’ormone scatenato, il pugno alzato, il cannolo arrotolato pendente dalle labbra, le endovenose in agguato nelle piazze, il canto no future nelle orecchie, le birre per ruttare sul mondo bastardo- avevo dei boccoloni che mi si adagiavano sulle spalle per poi cadere giù in picchiata lungo schiena o petto; avevo provato ad aprire quel grumo simile ad un frustino sadomaso; ebbene, all’interno, un fitto strato colloso con animali e insetti di ogni genere: sembrava un ambiente boschivo, un documentario sui piccoli animali terrestri.
E proprio oggi, in questo zero, punto d’equilibrio tra il più e il meno, ho svuotato lo zaino e mi son messo tutte le mie cose dentro una borsa di cuoio che usavo proprio in quegli anni. Non so perché, e del resto sono più le cose che non so, di quelle che conosco.
Al suo interno, tante firme. Soprattutto di ragazze, amiche e fidanzate dell’epoca.
Uno sforzo per ricordare.
Ricordo quasi tutte e tutti; l’aspetto, l’eloquio, il ruolo all’interno del gruppo. Erano tempi capelloni, e si parlava però, spesso, di cosa fare, dove andare, questo e quella, eredi di idee uccise dal telecomando. Il lusso di chi ha così tanto tempo da esserne annoiato, di chi ha voglie illecite, di chi scapperebbe alla scoperta del mondo, se solo il mondo fosse come non è.
Ricordo una di loro; i suoi baci caldi, lenti, senza fretta perché dove si dovrebbe andare visto che stiam facendo la miglior cosa possibile in questa vita?
E una saggezza che nemmeno mi sfiorava; sta lontano da quella roba, quella gente; vieni qui tra le mie braccia, dentro la mia bocca. E poi stringimi, che ci nascondiamo, che se ci trovano, troveranno due persone in una: forti ben più del doppio di ognuno di noi, e voi.
E ricordo di averla perduta perché non sapevo ascoltare altro che la mia età.
E c’era anche un ragazzo là in mezzo che se n’è andato, da solo, dentro un’auto, in un posto isolato. L’han trovato con una siringa impiantata sul braccio sinistro, dopo una telefonata anonima: c’era qualcuno con lui, ma niente nomi; solo rimpianto e rammarico e un segreto che gli peserà per sempre.
E poi ce n’è un’altra che stava assieme ad un altro che si faceva anch’egli. E girava con un’insulina in borsa, pronta ad immolarsi per lui; disposta a capire quei perché ch’egli non sapeva tradurre in parole.
E poi gli altri, che erano meno dentro la borsa, solo comparse, poi scomparse.
E in questa mattina zero gradi centigradi, con queste chiavi in mano che faticano ad entrare nella serratura intasata di freddo, circondato da questo profumo che non sa ancora, soltanto, della puzza di città, apro la portiera ed entro.
M’appoggio allo schienale dopo aver appoggiato la borsa.
La guardo, aspettando che si esprima.
Voci sottovoce invadono l’abitacolo. Escono da figure che scaturiscono da firme. Mi guardano. Io le guardo. Ci sorridiamo con facce d’epoca, chissefrega dei vent’anni e più che son passati.
E come va?
Va bene; va meglio soprattutto da quando mi faccio le domande giuste e non agisco solo risposte rabbiose.
Sì, ci sono ancora i colori nelle fantasie, e ci sono tante più verità e meno bugie.
E tutto è più delicato e facile. E la paura è sparita.
E questa mia faccia – e mentre lo dico chiedo conferma allo specchietto retrovisore- è ancora giovane e tutto sommato bella.
Poi allungo una mano e accarezzo quei volti che sorridono al tocco.
E guardo lei. Avevi ragione, già da allora, ma dovevo toccare con queste mie mani e sporcarle, dovevo stare vicino a chi era già definitivamente lontano.
E poi guardo lui; non dico niente. Qualsiasi parola sarebbe troppo e troppo poco. E sorrido.
E tutti gli altri, vestiti sgraziati come allora, li saluto con la mano.
In macchina il riscaldamento sta facendo energicamente il suo dovere.
Controllo l’ora.
Li guardo con lo sguardo gentile e chiedo loro di tornarsene in borsa.
È tardi e devo andare.
Anche se non è mai troppo tardi.
Anche se ci hanno sempre insegnato il contrario.
Non è mai troppo tardi.
Fuori è zero gradi.
Dentro si sta bene.

Cristiano prakash dorigo

venerdì 2 marzo 2012

Dalla, le stelle e Colonia



Ieri sera mentre passeggiavo con cagnona e guardavo il bellissimo cielo pieno di stelle, sentivo che la parte di me fuori dal controllo delle mie sentinelle, pensava a Dalla, e la parte razionale giudicava quei pensieri retorici, scontati, piagnoni.
Pensavo esattamente, con la vaghezza di chi non tiene sotto controllo, che chi ha scritto canzoni come le sue, doveva per forza essere uno che vede e sente quel che guarda.
Chiunque abbia a che fare con una qualsiasi forma espressiva artistica, sa che ci sono dei rari momenti buoni, che si devono cogliere, abbracciare, tradurre. Così come succede con la vita di tutti i giorni, dove le abitudini, la noia, l'obbligo, la formalità, convivono con momenti di straripante felicità, con gli insight, con parentesi decisive all'ispirazione.
Ebbene, lo spettacolo di un cielo notturno strapieno di stelle, può essere uno di quei momenti. Lo possono essere anche molti altri, non necessariamente belli o classicamente evocativi: l'importante è avere uno sguardo, un posto dove mettere quel che vede, la fortuna di avere il talento di trasformarlo in qualcosa che può essere comunicato.
Il ricordo più forte legato a Dalla, riguarda il periodo in cui vivevo in Germania, a Colonia, dove ho lavorato un breve periodo in una gelateria. Eravamo io e una coppia stramba, nella loro auto coattissima: lei era una ragazza di Milano, minuta, nervosa, tutta a scatti, capace di voler bene all'infinito, se ti aveva scelto; il moroso era della provincia di Treviso, alto, dinoccolato, incapace di esprimere a parole l'oceano di sentimenti che lo abitava. La sera, ogni tanto, quando non eravamo stroncati dalle ore di lavoro, andavamo in centro città e ascoltavamo, dall'impianto ipertrofico dell'auto, “Washington”, in versione live, e lo cantavamo fino a bruciarci le corde vocali, ubriachi di nostalgia, felicità, tristezza, gioventù.
Ha scritto una quantità incredibile di bellissime canzoni, ma questa mi strappa il cuore più di tutte.

giovedì 1 marzo 2012

lavori atipici



Arrivo alla stazione col treno dei pendolari.
A Mestre sale e si siede di fronte a me una ragazza che viene da un campo rom, credo. Sopra l’occhio sinistro ha un grande e vistoso cerotto.
Le mani, sporche, si toccano nervose.
È seduta da sola. Estrae un cellulare, cerca in rubrica un nome, chiama, nessuno risponde. Rinuncia e continua a muovere le mani nervosamente per tutto il viaggio.
Età indefinita, ma giovane, sotto i trenta; forse di tanto, anche.

Il Ponte degli Scalzi pare un bazar: si vendono borse, occhiali da sole, venduti da africani, e palle colorate che si spappolano su pezzi di cartone, dei bengalesi.
M’avvio verso S.Polo girando a destra.
Dopo il ponte che collega p.le Roma ai giardini Papadopoli, come ogni giorno, c’è una che chiede la carità in posa genuflessa. Sembra una zeta “Z”: le braccia dritte come sulla zeta, con il piattino sulle mani.
Ponte, a sinistra, lascio l’IUAV sulla destra, sottoportico, passato il quale, un altro mendicante, di quelli seduti, stavolta.
Proseguo diritto, faccio il ponte, cammino, giro a destra, poi a sinistra. Proprio all’altezza della piccola fontanella, sulla sinistra, una vecchia di quelle col santino sul piattino.
Trenta metri più avanti, la Scuola Grande di S. Rocco, bianca di marmo perlaceo. Sul campo adiacente hanno messo dei tendoni rossi, facendone una sorta di galleria temporanea. Sotto, seduti sui gradini della scuola e della chiesa, un pubblico eterogeneo di turisti ascolta, incantato dalla magia del posto, una cantante di strada che improvvisa un’aria tratta da un’opera lirica: base musicale, microfono e in-canto.
Sui gradini della chiesa una ragazza vende delle foto bellissime dialogando in inglese con altri turisti.
Sempre là, proprio in mezzo al passaggio dei pedoni, un tavolo di una onlus e un ragazzo e una ragazza che invitano i passanti a firmare e a lasciar loro un obolo.
Proseguo, giro a sinistra, passo davanti alla chiesa dei Frari dove c’è una vecchia col piattino tutta piegata a destra; sembra immobile in quella posa innaturale. Una turista di colore lascia qualche moneta.
La chiesa è immensa, immobile, eretta. Da dentro esce un suono d’organo.
Continuo fino ad arrivare a S. Polo. Qui trovo un gruppo di musicanti che si esibisce con fisarmonica, chitarra, violino. Sono bravi, musicisti veri, penso.
Prendo una calletta dove son sicuro di non incontrare turisti ma, a S. Croce, ai piedi di un ponte di cui non ricordo il nome, chiede carità una giovane cui manca l’occhio sinistro. Al suo posto, una levigata cicatrice e il nulla: sulla destra, l’altro occhio rotea vivo. E’ quella del treno.

Alla sera piove.
Tra le calli, silenzio.
Sull’ombrello lo scroscio picchietta a ritmo afrocubano.
Piscine ovunque, pantaloni bagnati fino alle ginocchia.
Ma chissenefrega, penso: è marzo, un po’ di bagnato non farà poi così male.
Sorrido a chiunque, per strada, e sono contraccambiato.
C’è un’allegria senza ragione, un buio dolce.
In stazione tutti ad attendere il proprio treno, al riparo dell'imponente tettoia squadrata dall'evidente stile fascista. Decine di persone rendono viva e dinamica, come fosse un organismo, quella tettoia in cemento, con il loro andirivieni, con gli sguardi vagamente ansiosi rivolti al tabellone degli orari.
Arriva il mio treno, appena in ritardo, al binario quattordici.
Tra quaranta minuti sono a casa.
Tra i passeggeri umidi, noto anche lei, quella col cerotto.
Anche per oggi, penso, abbiamo finito di lavorare.

Cristiano prakash dorigo