domenica 12 febbraio 2012


Pensavo a Giovanni Lindo Ferretti in questi giorni.
Ci pensavo in relazione alla neve e al fatto che lui abita nell’appennino, in un paese di montagna isolato, pieno di vecchi, per quanto pieno possa essere un paese con poche centinaia di abitanti.
Pensavo alla sua casa, alla stalla, al fuoco del camino, alla legna, al tetto, alla quantità di neve a intasare le stradine, ai suoi cavalli, alle sue preghiere, alle sue scorte di mangiare, bere, fumare.
Pensavo alla sua beatitudine, alle sue rabbie, alle angosce, alle visioni, alla leggerezza, alla fatica, al bisogno, sua unica condizione possibile, di essere quello che è.
Pensavo al percorso della sua vita, che conosco così poco, e che invece credo di conoscere abbastanza bene da potermene fare un’idea; a tal punto da non riuscire a provare nei suoi confronti amore, tenerezza, rispetto, ma anche repulsione, bisogno di distanza: perché so quanto può essere terribile stare vicini ad una persona che vive così in profondità sé stesso, a tal punto da sfidare il mondo. Un mondo che non sa che lui non può scegliere, che non sta provocando: che non sa che può essere solo ciò che è, che non gli è concessa alternativa, possibilità, che essere così.
Pensavo che è uno dei pochi che ha avuta la mia fiducia incondizionata, che lui e pochi altri sono persone a cui mi sento così vicino da dovermene allontanare. Un tempo, quando la musica era la mia religione, lui era importante, ascoltavo le parole che cantava senza voce, sgraziato, eppure così profondo.
Pensavo che ci sono persone che hanno un potere che non immaginano di avere, che è anche la ragione per cui probabilmente si detestano: quello della stretta prossimità con la propria verità.
Pensavo che in questi ultimi anni ha perso molti amici e molti suoi seguaci, che è stato avvicinato e sfruttato da servi che a loro volta sfruttano perché è la sola dimensione che conoscono, e che questo gli è costato caro: chissà, mi chiedevo, se avrà trovato qualcuno che l’ha aiutato a spalare la neve, ad approvvigionarsi, che sia andato in farmacia al posto suo perché febbricitante.
Pensavo a come mi faccio influenzare da quello che leggo, che sento, che fantastico, e che magari è solo la mia mente che tende a fare dei rendiconti sperando di trasformarli in materiale da cui poter trarre qualcosa da scrivere.
Pensavo al suo rapporto col sesso; se lo ha trasceso e superato, se ha occasioni che non siano solo masturbatorie, se muore dalla voglia di chiavare e si aggrappa alla fede, se riversa il suo amore ai cavalli, se li ama fino in fondo, fino allo stremo, al parossismo.
Pensavo a quando se ne va per i monti, in quel silenzio puro, in mezzo a quegli odori di bosco, all’asprezza delle condizioni climatiche, alla sua pelle segnata, alla sua bruttezza estetica che si trasforma in bellezza estatica.
Pensavo che vorrei andare a vedere dove abita, che un giorno ci andrò, che lo vedrò e ne sarò attratto ma gli starò lontano perché non lo desidero affatto. Forse vorrei dirgli che lo so che non vuole essere idolo di nessuno. E infatti nel mio caso non lo è: è solo un fratello, e io gli voglio un bene fraterno.

Cristiano Prakash Dorigo

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