mercoledì 29 febbraio 2012


Pensieri che


Un pensiero fisso.
Un solo gesto ha aperto un varco, scolpito un solco nella visione della realtà, per quel che è. Ed è uno sguardo nel nulla, rivolto ad un pensiero che fa arrossire.
Pur nel mezzo di un autobus affollato, l’urgenza di un attimo di riflessione, per capire, o meglio, tradurre, quel preludio di instabilità mista a gioia. Ma anche colpa che schiaccia il petto e accelera il respiro che si fa disordinato; piccoli bocconi d’aria, che entrano ed escono irregolari.
Il telefono in mano attende che una sensazione si confermi attraverso il messaggio che sa, lo sente, dovrà arrivare; per forza, altrimenti sarebbe tutto sbagliato e l’equilibrio che ha accettato di rimettere in discussione, una forzatura dolorosa.
Lo guardo fissa il nulla, in attesa che il tempo passi senza che lo senta scorrere, come un’interruzione catatonica, ma svuotata di sentimento.
L’autobus procede penetrando il buio che ormai sta prendendo confidenza con l’autunno, e arriva presto.Il buio, col suo respiro più greve, con la tentazione di lasciare gli alibi e le piccole finzioni d’ogni giorno, alla luce. Tanto nessuno al buio ci vede, possiamo smettere di non essere, e iniziare a guardare con gli occhi puliti quello che le cose, sono.

L’incanto viene interrotto dal suono di un messaggio.
Torna al tempo, alla realtà.
È Andrea, il suo ragazzo, che le chiede dov’è perché stasera ha finito presto e vuole preparare lui, la cena. Ha già fatto la spesa e aspetta solo il suo via.
Andrea è un caro ragazzo. Sono assieme da tre anni e stanno pensando al matrimonio. Stasera lei cena da lui, come ogni sera, da un po’ di tempo. Poi se ne torna a casa perché non si vive assieme se non si è sposati. Semplicemente non si può, e non c’è dubbio o pensiero che ne metta in discussione la giustezza.
Lei è perfettamente d’accordo.
Qualche anno prima era anche in armonia con l’idea che bisogna sposarsi prima di avere rapporti completi. Anche Andrea trovava comprensibile quella presunzione di verità che ha che fare con la virtù, con il controllo consapevole delle pulsioni.
Tuttavia tra loro c’erano differenze, culturali e religiose, notevoli.
Lui non le aveva mai nascosto di aver avuto rapporti completi in precedenza: per sincerità, senza scendere in particolari che potessero umiliarla o ferirla.
La famiglia di lei era aperta alle altrui credenze pur conservando e difendendo una robusta tradizione cattolica. Ma era di quelle abituate a discutere senza remore il valore della fede come profonda dimensione spirituale, senza vergogna o tentennamenti.
Per niente dogmatica, libertaria e sicura che anche i loro figli, quattro, due maschi e due femmine, fossero sulla loro stessa frequenza.
Sapevano che lei andava da Andrea e che lui viveva da solo da qualche anno e mai avevano proferito parola.
Sul fatto di vivere assieme, comunque, non era nemmeno lontanamente un punto che si potesse discutere, in quanto implicito e inciso, come marchio, nella loro morale familiare.
Lei aveva in un certo modo tradito la loro fiducia e si era lasciata andare, senza forzature, ad una pratica sessuale che escludeva soltanto la penetrazione. Tutto il resto era concesso.
Per lei era una pratica rilassante anche sa a volte fingeva un coinvolgimento che in realtà le mancava.
Come se diventare moglie, perché così sarebbe stato, nessuno ne dubitava anche se nessuno ne aveva mai parlato, prevedesse anche dei sacrifici, oltre ai benefici. Una sorta di impegno per cui, si sa, gli uomini sono spesso esuberanti e bisogna assecondarli se non si vuole che venga loro qualche strano pensiero verso altre donne.
Risponde al messaggio dicendo che sta per prendere l’autobus, che sarebbe arrivata entro dieci minuti.

Voleva prendere tempo, capire.
E al tempo stesso non voleva.
Non sapeva più cosa farne di quella sensazione che le saliva da sotto e andava e veniva e scaldava la pancia e la indolenziva.
Le bastava la voce, o immaginarla soltanto.
Se lo sentiva al telefono, schiacciava lo stesso all’orecchio per sentire se, così, quella voce poteva entrare dentro e farsi un giro.
E quando ce l’aveva davanti, adesso, cercava il suo sguardo continuamente, anche se soltanto per un secondo, voleva sentirsi accarezzata da quegli occhi.
Eppure fino a poco tempo prima, non aveva mai avuto il coraggio di farsi toccare da quelle mani perché non sapeva cosa sarebbe successo. Aveva paura di svenire, svanire, farsi liquida e colargli addosso.
Suonò il campanello e scese due fermate prima. Aveva bisogno di stare da sola, in compagnia di quel pensiero che aveva sempre dominato, finora, ma che era ormai diventato palese.
In testa turbinavano parole e dubbi, paure, tentazioni.
Chi parlava dentro lei, chi ordinava quel che sì o quel che no. Che faccia aveva chi pronunciava quel verbo che sembrava, sin poco tempo prima virtù, piena e condivisa; e ora era solo coercizione , prigione dell’istinto.
Il cielo ormai scuro, le luci dei negozi, i cartelloni pubblicitari, la puzza degli scarichi delle auto, i clacson; chiacchiericcio di città, indifferente.

Che cos’è l’amore, il vero amore?
Solo Dio poteva conoscere la risposta.
Lei, e ciascuno singolo essere umano, potevano tentare di capirlo, ma non sapere se davvero, quel che le loro esperienze insegnavano, potevano esserne testimonianza.
Quel che il suo corpo diceva, era forse soltanto tentazione. Di leggerezza, di abbandono, di fugace felicità.
E ogni segnale, come il calore, l’inturgidimento, la liquidità degli umori, la rappresentazione pratica di questa tentazione.
E allora come, cosa fare?
I difetti: il suo alito se aveva dormito o fumato; oppure quando le rinfacciava di essere poco indipendente; l’attaccamento alla famiglia; l’incapacità cronica di decidere. Così lui diventava brutto, indesiderabile, sporco. Come quando non si faceva il bidet, o non si lavava mani o denti. O quando la sua barba le grattava, fino a scorticarla, il viso.
Sei brutto Andrea; sei noioso, giudicante, puzzolente.
I tuoi occhi e le tue intenzioni sono palesi e patetiche come quelle di ogni altro uomo di questo mondo.
Siete tutti uguali, e tu sei appena un po’ meglio.

L’aria era frizzante. Sentiva una vaga sensazione di nausea, di origine ansiogena le pareva.
L’incertezza provocava disagio.
Pensava ad Andrea, a quel suo cucinare sghembo. Lo vedeva là, in cucina, in piedi, con le ciabatte e il grembiule sozzo. Era allegro, le raccontava, quando sapeva che lei andava lì con lui. Parlava sciolto, senza seguire un senso, e di solito faceva tutto lui: cucinare, servire, sparecchiare, lavare i piatti.
E pensava alla cena a casa dei genitori, così formale, anche se calda e accogliente.
Passava davanti ad un cartellone che raffigurava una ragazza in mutande e reggiseno. Lo guardò senza vederlo.
Frugò nella borsa con le dita agili.
Estrasse il cellulare.

sì, pronto.”
ciao Andrea, sono io. Scusa, ma volevo avvisarti che stasera non vengo”
e me lo dici solo adesso che è quasi pronto? Ma è successo qualcosa?, ti sento strana”
no, solo non mi sento bene. Non so spiegarlo. Ma i miei non mi vedono mai e farebbe loro piacere se qualche volta cenassi con loro”
sì, è vero. Ma non puoi domani: ormai è quasi pronto”
no, vado a casa. Ci si vede domani”
va bene, non insisto. Anche se ti sento strana. Sei sicura di non volerne parlare?”
non ti preoccupare, domani ti spiego. Ciao”
ciao”

cristiano prakash dorigo

lunedì 27 febbraio 2012

logica del consumo e simpatie


L’Italia è in grande fermento e stanno cambiando molte cose.
Si sta tentando attraverso un governo rispettabile, nel nostro paese e all’estero, di modificare molte cattive abitudini, non ultima quella della corruzione, intesa anche come percezione del fenomeno: da tolleranza, o addirittura aspirazione, a condanna, demonizzazione. Fin qui, niente di male, anzi.
Mi impressiona però un fenomeno collaterale, una controindicazione: quella ad esempio della ministra che ha guadagnato in un anno sette milioni di euro, la quale dice che non si deve demonizzare la ricchezza, e che anzi si dovrebbe provare simpatia nei confronti di coloro che la producono, in quanto contribuiscono tra l’altro a rimpolpare le casse dello stato pagando molte tasse.
Dinnanzi a una simile boutade, pur essendo d’accordo sul principio che la ricchezza non è demoniaca, dissento totalmente dal fatto che dovrei provarne simpatia.
Se penso che ci sono molti ricchi, alcuni dei quali simpatici, non riesco a non pensare che la proporzione tra chi ha molto- il 10% degli italiani detiene il 50% della ricchezza nazionale- e chi ha poco, o addirittura meno di poco- il rimanente 90% della popolazione ne possiede l’altro 50%-, è decisamente brutale e sintomo di una società poco equa.
Prendendo ad esempio il signore che ha passato più di settanta giorni in una torretta della stazione centrale di Milano, all’aperto, a trenta metri d’altezza senza riscaldamento, per protestare contro il taglio del servizio ferroviario notturno delle linee nord-sud, penso che la simpatia umana, il calore, la solidarietà, vada rivolta più a lui che alla ricca ministra.
E questo, senza timore di sembrare classista, comunista, o altri “ista”: quell’uomo è sceso per sua figlia, per poterle stare accanto, pur sapendo di non poterle offrire altro che sé.
Una persona che da un giorno all’altro perde il lavoro, senza avere altre fonti di reddito, con un progetto di vita- che questo governo sa benissimo, significa avere dei conti da pagare-, merita lo sforzo di un pensiero più approfondito, non solo tecnico, su cosa significhi vivere, sopravvivere, benessere.
Nelle democrazie occidentali, uno dei diritti fondamentali è quello del consumo. La società è più o meno strutturata, semplificando, in questo modo: il centro di tutto è il denaro; il denaro consente di possedere, e più si possiede, più si è; per consentire a questo meccanismo di autoalimentarsi c’è bisogno di far girare i soldi: in tal senso la società dei consumi produce beni da consumare, i quali vengono consumati in modo maggiore o minore a seconda di quanto denaro si ha a disposizione; per allargare la produzione e la distribuzione, bisogna rendere accessibile ai più la possibilità di avere quote di denaro da spendere. In fase recessiva si hanno meno soldi da spendere, il ché causa una flessione dei consumi, e perciò della produzione e perciò della ricchezza generale.
Stando all’interno di questa logica, che finora ha retto e che ha prodotto mostruosità- che a spiegarle a un bambino di sei anni ti guarderebbe come fossi un idiota- tipo la finanza, tutto ha una sua linearità. Io lavoro per poter consumare, per costruire un futuro di consumo ai miei figli, contribuendo così, non tanto a farmi rubare il senso e il tempo e la salute, ma al benessere di tutti. La ministra perciò dovrebbe essermi molto più simpatica di uno che è stato al freddo e ha fatto i propri bisogni in sacchetti di plastica e non si è lavato per più di due mesi, perché lei ha contribuito al benessere di tutti e questo signore invece no?
Mi scuso con la ministra e con il signore che ho biecamente usati per un ragionamento forse fuori dal tempo e dalla logica, ma non ho più tempo, e forse nemmeno più logica.

Cristiano Prakash Dorigo   

sottopassi


Alla stazione quanta gente.
E’ pienissimo, stracolmo.
Saluto Gianna che torna a casa sua, a Bologna.
E’ tardi, fa buio.
Sulle pensiline è chiaro di luci da stazione.
Sul bordo, do un ultimo bacio a Gianna. L’abbraccio anche, spazzolando la sua schiena con il palmo; come a sottolineare che anche quando sarà partita, un po’ di me sarà con lei, un po’ di lei sarà con me. Il prosieguo di un momento che è finito nell’istante in cui il suo piede sinistro è partito per incontrare il gradino della carrozza.
Guardo il treno partire. Il suolo trema, il rumore assorda. 
Di fronte a me un sacco di gente di ogni genere, per la maggior parte giovani vestiti da notte e reietti vestiti da culo.
Vedo il culo del treno fino a che, un paio di curve dopo il rettilineo preciso dei binari, scompare. Penso all’allegoria della scomparsa mentre scendo i gradini e m’avvio verso il sottopassaggio.
Giro a sinistra, verso Marghera. Delle due possibilità, ho scelto quella con meno gente, meno finta allegria, più periferica e desolata.
Cammino solo in quella direzione mentre qualche altro passante, chi saltando, giullare, per stupire la compagnia, chi abbraccia stretto il suo amore, s’avvia in direzione contraria.
Salgo i gradini e sbuco in via Ulloa.
Appena giunto in zona marciapiede esce dal buio frammentato dai lampioni un ragazzo. Ha il cappuccio del piumino di nailon modello caritas sopra la testa e mi chiede, con accento arabo-veneto, se:
      - “hai due euro per telefonare, amico!”
      - “ no, magari: non ho moneta, mi spiace”
-       “ io fame. Io freddo”
-       “mi spiace, davvero”
-       “fanculo”
Mi stringo nel cappotto. Forse merito quel fanculo ma, anche oggi, in giro con Gianna e gli altri a Venezia, ne avrò incrociati almeno una quindicina. Si dice  siano bande organizzate che si spartiscono il territorio. Abitanti e studenti ci hanno fatto ormai il callo; i turisti, invece, sganciano.
Non posso far niente per loro: riesco a malapena a elaborare motivazioni decenti per me, per dar colore a una vita grigio asfalto.
Prendo l’angolo a sinistra e in fondo alla via vedo cinque ragazzoni africani da un metro e novanta. Avanzano dinoccolati e parlano la loro lingua gutturale, profonda. E ridono, 
come fanno sempre; anche quando, anche loro piccolo esercito, attendono con ansia poliziotti e vigili, mentre tentano di vendere borsette finto fashion alle turiste che fiutano l’affare: portare finte Gucci che sembrano vere per pochi euro, wow!!
Siamo solo io e loro.
Ci incrociamo.
Io guardo il marciapiede e sorrido.
Loro nemmeno mi vedono.
Non posso impedirmi di percepire un’agitazione sottile, contraria ai miei pensieri, ai miei principi, alle mie idee. E se fossi una ragazza, come mi sarei sentita? Avrei percepito pericolo, panico, terrore, o indifferente abitudine?
Mancano trenta metri alla macchina e sento dei passi dietro. Dapprima sono cammino, poi passo veloce, trotto, sempre più veloci fino a diventare corsa. Sono almeno otto dieci piedi che sbattono sull’asfalto.
Sento dei pneumatici stridere e un rumore di frenata.
Delle urla sottovoce e delle voci che intimano a queste di stare ferme e non muoversi.
Poi avanzo mentre l’azzurro intermittente colora la notte nera.
Ecco l’auto.
Infilo la chiave mentre due, sui cinquanta, con le loro facce dell’est e i fagotti in plastica, scavalcano un cancello e guadagnano una villetta anni cinquanta evidentemente chiusa e abbandonata.
Salgo in macchina, appoggio lo zaino e chiudo subito le sicure che non si sa mai.
Giro la chiave, le luci dell’abitacolo sfumano, il climatizzatore sussurra mentre Chet Baker soffia sulla sua tromba.
Gianna starà leggendo sul treno; o forse starà gustando il sapore della giornata.
Io parto, i fari fendono il buio.
I pensieri seguono il sussurro disperato della tromba.

Cristiano prakash dorigo 

venerdì 24 febbraio 2012

prefazione catalogo dell'amico Pino D'Ambrosio


…Ho ritrovato l’eternità: è il sole in comunione con il mare
…Non serve dare risposte, ma spronare gli uomini alla ricerca della verità

Per arrivare allo studio di Pino, che è anche la sua casa, ci si deve addentrare tra le calli di Cannaregio, rischiando di perdersi. Si trova il civico, si suona il campanello, lui scende ad aprire il portoncino; si salgono le scale e si accede al sottotetto dove vive, medita, dipinge. Ci si trova di fronte ad una sorta di caotica quiete, come se non si potesse far altro che convivere con entrambe. Si inizia a chiacchierare, a guardare le opere, raccontarle senza spiegarle, perché non si può verbalizzare la sacralità del gesto pittorico, e non si possono usare parole che includano l’immaginifica immersione nel quadro, che è un insieme di gesti interiori che non dicono, ma si limitano a mostrare l’inconosciuto onirico, anziché l’intenzione. 
Quando si guardano le opere di Pino D’ambrosio si convive da subito con sentimenti contrastanti: si prova repulsione e attrazione, ci si vorrebbe allontanare perché ci si sente avvolti, partecipi, perduti.
La chiave di lettura è la contraddizione che si vive, anche soltanto vivendo; quando si pensa al mistero, all’abisso, alla spinta vitale, alla forza che diventa fragilità e accettazione dell’incomprensibile.
Quando si guardano i volti stilizzati, gli occhi enormi che non guardano ma sembrano vedere quello che c’è, ma non si vede. E cosa vede un artista quando guarda il mondo, lo scorrere della vita, la sua perfezione difettosa, i meccanismi della meccanica delle abitudini, dei riti, degli equilibri che oscillano di qua- nel tempo finito-, e di là, nell’infinito?
Parlando con lui, confidandosi le reciproche ossessioni, le convinzioni sulla centralità dell’essere umano, del suo essere necessario, e al tempo stesso inutile, del suo confrontarsi con un’eternità frettolosa, costretta da bisogni leggeri eppure fondamentali, dall’essere disposti a tutto, per trasformare il nulla in culla su cui trovare riposo.
La mente, allora, per inerzia, usa parole casuali, buttate nella mischia confusa delle nostre esistenze segnate da un destino tremendamente banale, scarnificate da trascendenze terrene.
Si guardano i nasi, triangoli sconnessi, linee che si incontrano e proseguono fino a definire una funzione estetica doverosa, sacrificata alla forma per necessità; eppure, al contempo, se ne nota la disposizione asimmetrica, la volontà di mostrarli simili ma unici. Si pensa allora alla memoria percettiva dell’olfatto, che s’incista nel profondo, che aspetta che ritroviamo similitudini, per farci notare le differenze. I profumi, gli odori, sono la memoria, volti, occasioni, avvenimenti. E loro ci sono, sotto quegli occhi giganti che occupano lo spazio superiore, a ricordarci che i sensi che volteggiano all’interno, sono serviti e continuamente sollecitati dagli organi esterni.
E le bocche, usate per nutrirci e per parlare, sono sempre chiuse, immobili, in attesa. Non hanno parole che possano esprimere l’inesprimibile, quasi appartenessero ad un oltre, o si vedessero allo specchio e pensassero che il silenzio, è a suo agio col mistero impenetrabile dell’esistenza, dell’eternità.
C’è uno stile riconoscibile, un marchio, un tratto, scarno, essenziale, naif.
Pare esserci un potente bisogno comunicativo, un messaggio che non si compone di parole, ma di segni, di immagini nette, e al contempo simboliche.  
Insomma, il gioco è volutamente velato, volontariamente semplificato, perché l’abisso, la redenzione, l’attualità, l’eternità non sono simboli, parole, che si possano contemplare e comprendere di fretta, in velocità: non si accontentano della tragica vittoria dell’apparenza, ma richiedono uno sforzo cognitivo, ma soprattutto emotivo.
Il confine tra ciò che è e ciò che pare che sia, va attraversato, va vissuto, va sentito.
E non si parli di colori, di potenza estetica: troppo facile, semplice, come brutalizzare la complessità, banalizzandola.
Ci si fermi piuttosto, e si stia davanti all’opera immobili, silenti, ascoltando i tumulti interiori, le accelerazioni, l’estasi.
Ci si faccia coraggio, ci si abbandoni all’apocalisse del gesto artistico, all’ascesi del messaggio religioso e mistico che la vita ci offre.
Ultraterreno, angeli, volti, braccia, alberi, uccelli, colorano e presenziano in paesaggi paradossali, mescolando scene quotidiane, senza sorprese, ad altre stratificate, multiformi.
Perché la verità, il suo nucleo centrale, è nascosto, e vi si accede, forse, soltanto dopo aver immaginato, aver perduto, aver ceduto, aver creduto, aver subìto. E ogni volta, non è mai definitiva. 
Ci sono messaggi da decodificare, visioni da vedere, simboli da svelare.
Ci sono tanti mondi, tanti significati, tante interpretazioni. Ma non sarà il borbottare della mente a rivelarci perché siamo qui.
Sarà forse l’abbandono, l’ascolto, la visione.
Sarà forse uno sguardo innocente, che non attribuisce senso, ma che accetta quel che è.
Sarà forse che l’eternità è qui, ora, con noi, in noi.
Sarà forse che l’artista, lo ha sempre saputo.

Cristiano Prakash Dorigo

mercoledì 22 febbraio 2012

questa giornata


Questa giornata è una bella giornata e io devo pigliare quel che arriva con la grazia di chi non giudica, ma accoglie e sorride.
Sembra oramai un mantra, questo. Ma perché non dovrei accettare i consigli del terapeuta: una formula salvifica è positività; ci metterà del tempo ma crescerà e lascerà un segno inciso nell’animo.
Quest’altro consiglio non lo so accettare e alla mattina, appena alzata, mi prendo solo un caffè,  nero e dolce, e fanculo. Dovrei passare ai cereali e alle fette biscottate integrali con la marmellata biologica e il tè verde. Dovrei ma non c’entra, cazzarola.
Poi subito la sigaretta, tanto per far andar via quell’oppressione ai polmoni che schiaccia col vigore d’una pressa. La prima cicca è una delle cose belle della mia vita: tiro forte, tirate luuunghee, che occupano immediatamente tutte le distonie dei polmoni che si lamentano. E poi la pace, l’ansia che si placa e ridiscende dentro fino a diventare lontano ricordo che ogni tanto ricompare.
Non è molto elegante, ma lo dico lo stesso, tanto mica va su un giornale rosa sta specie di diario a pezzi: la sigaretta me la fumo in bagno, mentre faccio i bisogni mattutini. E’ il vantaggio di abitare in campagna, con le case ancora grandi che hanno almeno tre bagni. E questo è solo mio. Mia madre e mia sorella ne hanno anche loro uno ciascuno, così ci posso fare quello che voglio qua dentro. Finalmente riconquisto la libertà dopo anni di sacrificio; mi sono tenuta dentro tutto, tutto soffocato là sotto, perfino a cagare ci andavo quando ero sicura che non c’era nessuno in casa; per paura di far rumori molesti, o puzza.
Proprio pensieri da cesso mi vengono alla mattina, altro che bella giornata. C’è questa rabbia che esplode così senza preavviso e che mi regala pensieri che non vorrei pensare e mi fa dire, nel silenzio di questi, parole che mai vorrei udire da alcuno; specialmente me stessa. Ma poi passano; “è forse la tazza che evoca il piacere anale che ritorna con la sua semplicità, complicata ad arte dalla morale e dalla cultura occidentale”.
Ma che bei pensierini da convegno che mi vengono mentre me ne sto qua seduta, con sta cicca fumante tra le dita.
Finito, via sotto la doccia.
“sono un corpo umido d’acqua e vapore/sono nascosta dentro a questa nebbia/mi vedi e non mi vedi/ ci sono o forse no/sono solo un sogno/ che si rivela un poco/ per suscitare domande/ per scaturire risposte”.
C’è chi canta, in doccia; io no, m’immagino d’essere una che scrive canzoni e a seconda di chi me la commissiona, scelgo un particolare stile. E anche perché ho sempre freddo e questo comporre canzoni mi distrae dalla temperatura che mi penetra la pelle e arriva fino alle ossa e poi ancora oltre, a dare l’allarme alle interiora.
Terminata la doccia inizia il supplizio: devo decidere cosa mettermi addosso; ed è una  logorante guerra quotidiana, una di quelle cose che, in certe giornate mi spossano ancor prima d’uscire. Oggi non dovrei avere riunioni quindi una qualsiasi cosa dovrebbe andar bene a patto che sia almeno decente. Che poi lo so che non sono gli ometti che s’accorgono come mi vesto e se tutto è intonato, ma quelle mezze vacche delle mie colleghe; le regine del brusio, le star del chiacchiericcio.
Va bene, decido per il blu, che tutti mi dicono mi stia bene e basta.
Questi jeans mi stanno proprio bene, con quello che son costati, ci mancherebbe; poi son di moda e coordinati con i gemelli blu scuro sono a posto. Adoro sentire questa lana pregiata sulla pelle, passarci le mani sopra facendo finta di sistemarmi, ma in realtà soltanto per posarci le mie mani sopra e affondare sul morbido.
Un trucco leggero e una spazzolata ai capelli che speriamo resistano fino a sabato che c’ho l’appuntamento dal parrucchiere.
Prima di uscire devo dare un’occhiata all’agenda e fare il punto della situazione; l’altro giorno Gianluca e Susi m’hanno invitato al cinema con tutta la compagnia e io, come una scema, a dire sì, sì; con una faccia che si vedeva lontano un chilometro che non c’ho mai niente di bello da fare, solo impegni, e corsi, e palestra, e teatro, ecc.
Il teatro, un posto e un tempo per provare emozioni vere, per farmi uscire da sta monotonia, da sto appiattimento cui assisto come fossi sempre a teatro; spettatrice al di qua del proscenio della mia vita: uno spettacolo scadente, con pochi applausi.
E insomma quella sera che dovevo andare al cinema e poi, magari, a fare tutti insieme un bello strip poker: io che perdevo apposta e davanti a tutti, un pezzo alla volta, togliere con la finta calma pacchiana delle spogliarelliste, gli indumenti. E sentire che quelli che mi guardano si eccitano, gli si gonfiano i pantaloni. E le donnine gelose, perché sentono quest’elettricità che tutti investe. 

“La fortuna di essere femmina, di poter scegliere chi voglio quando ne ho voglia”
“Ma la mia voglia ha una qualità diversa, e sorge solo se sono desiderata”
“Non so come fate, ma quando volete, inducete il desiderio in noi maschi”
“sono solo parole e pensieri tipicamente maschili. La realtà è molto più complicata e difficile”
“la realtà è la rappresentazione che noi diamo della nostra soggettiva visione delle cose”
“certo. Sono un po’ stanca, ti spiacerebbe riaccompagnarmi al parcheggio della pizzeria che prendo la macchina e torno a casa?”
“veramente speravo riuscissimo a stare un po’ insieme stasera”
“anch’io, ma non mi sento tanto bene. Scusa”

Mentre raggiungo la macchina per andare al lavoro, penso che ormai ho superati i trenta, che i miei sogni stanno diventando materiale effimero fuori moda, che se non mi muovo non diventerò mai madre, che continuerò a vivere con mia sorella e mia madre, che il calore e l’amore di cui penso di aver bisogno li leggerò sui romanzi.
E che non smetterò mai di fumare.

Cristiano prakash dorigo

lunedì 20 febbraio 2012

dopo martedì grasso


Mercoledì.
È passato carnevale.
Ieri era la follia conclamata, oggi quella ufficiosa.
Per terra tracce di festa: coriandoli, stelle filanti, bottiglie rotte, vomito.
Venezia è morta da tanto, e vive solo grazie alla decadente bellezza dei ricordi immortali, a cui non si può non perdonare tutto. Anche la volontà politica di una svendita ignobile. Suoi unici abitanti, vecchi piegati dall’umidità, ricchi mercenari, ignoranti inebetiti dagli spritz, universitari protempore, poca gioventù, soggiogata dall’isolamento.
Uno sguardo attento a vedere, senza pensieri che ottundono la semplice verità, e confondono ciò che è, con ciò che io credo che sia.
La strada straripa di donne e uomini ridotti allo status di turista, sviliti dalla sagacia  immorale di commercianti di souvenir della vuota nostalgia meretricia.
Maschere, vetri, scarpe, bottiglierie, pizzerie, occhialerie, alberghi, fast-food, cucina tradizionale, cinese, araba.
Cammino zigzagando tra trolley grandi come tir e zaini misura camper.
Rido e canto canzoni finte che fingo di ascoltare da cuffiette che non emettono alcun suono, ma che limitano l’invadenza di quel parlare idiomi incomprensibili dai toni stanchi.
Cinesi avanzano a grumi e si distinguono per questo rimanere compatti, e per i vestiti di chi latita dalla fantasia.
Giapponesi a piccoli gruppi, da due a cinque, camminano con borsette, passo, pettinature e vestiti da sfilata. Si scattano foto con espressioni standard: sembrano cartoni animati da bambini che lanciano urletti isterici e sostituiscono in senso onomatopeico il nulla del loro non ragionare. Non guardano mai negli occhi.
Americani si distinguono tra obesi e muscolosi iper tonici. Arrotondano le parole con dei versi che sembrano scivolare sulla loro stessa parodia. Hanno bei denti, sguardi felici di chi antepone l’ottimismo semplice alla pedante complessità. Sono evidentemente quel che sembrano e il mondo li guarda sconcertati.
Bengalesi pettinati con righe in parte iperboliche lasciano scie speziate.
Inglesi pallidi portano con sé una nobiltà decadente, umiliata dai più giovani che non nascondono una disperazione penetrata fin dentro le ossa. Sanno di pioggia, cielo grigio, case marrone a perdita d’occhio, socialità costrette dentro uffici o pub, e birra a gonfiare il ventre.
Tedeschi a misura di famiglia che non si vergognano di niente. Purché sia efficiente e affidabile.
Francesi che sembrano italiani con l’erre moscia, con la stronzaggine intrinseca di chi passeggia in centro.
Spagnoli che sembrano italiani che se ne fregano di essere sempre e comunque vestiti alla moda e parlano ancora ad alta voce e ridono.
Olandesi biondi e impermeabili alle emozioni che leggono guide turistiche dalle loro altezze siderali che compensano il fatto che vengono dai paesi bassi.
Coreani che sorridono, e che sono in modo evidente la prossima modernità.
Ai lati, neri robusti vendono borse finte. Parlano gutturale, ridono sempre tra loro e uccidono afflati di simpatia pur di vendere qualcosa.
Altri vendono altro.
Zingari rumeni mendicano compassione ai sensi di colpa.
Veneziani vendono ritratti stereotipati di angoli cittadini inesistenti commissionati in Cina e Vietnam.

Io sono il mondo, anche.
Il primo, il secondo, il terzo e finanche il quarto.
Contengo tutti i mondi, in scala gerarchica.
Mondi che coesistono detestandosi, scaricando sull’amministratore di condominio l’onere di tante contraddizioni.

Tutti hanno le stesse scarpe da ginnastica. Alcuni, scarponi neri. Altri imitazioni di scarpe. Altri i sandali.
Maglie e camicie sudate. Piumini, pellicce, cappotti.
M’han rotto i coglioni, penso.

Mi metto ad un lato della strada, tra un negozio di scarpe e una libreria da turisti.
Fingo di ascoltare musica, mi metto a ballare breack-dance e poi faccio il robotino che si muove a scatti.
Poi fingo di raccontarmi e ascoltare una barzelletta e rido a voce altissima, il tutto col silenzio del mimo.
Poi mi stendo fingendo di essere colpito da una spada invisibile e accuso il colpo rinculando vistosamente.
Poi mi sposto in un campo attiguo, prendo posizione dove ho spazio a disposizione e comincio a roteare su me stesso; prima piano poi sempre più veloce sino a non distinguere più l’immobilità e l’imponenza dei palazzi che mi circondano.
Roteo danzando come i dervisci.
Dopo qualche minuto mi fermo.
La testa gira, mi lascio cadere morbidamente a terra.

Mi si avvicina una bella e giovane bionda vestita con una gonna lunga e una camicia leggera.
Mi appoggia le labbra sulle labbra, leggera, senza impegno.
Mi guarda con gli occhi azzurri e chiari e ingenui di chi ha non più di venticinque anni.
Mi sussurra ad un orecchio: “ I understand you”, e se ne va, dopo avermi leccato l’orecchio destro.

Mi rialzo.
Mi spazzolo i vestiti senza polvere.
Vedo un paio di decine di occhi che mi fissano incuriositi.
Sulla borsa appoggiata a terra, qualche € di caritatevole predisposizione all’arte che non ho manifestato.
La prendo, metto in tasca i soldi e vado salutando con un gesto della mano.
Squilla il telefonino.
“sì, pronto”
“dottor Persepolis, sono Giaquinto. Sto male, ho bisogno di vederla. La prego, posso venire oggi?”
“Giaquinto, sono ancora per strada. Appena arrivo in studio controllo con Anna gli appuntamenti, e se ho un buco la ricevo.
Se non è oggi, sarà per domani. Ha preso gli ansiolitici che le avevo prescritto? Sì, bene. Ci sentiamo più tardi”
“ Anna, sono io, sto arrivando. Se qualcuno telefona, prenda appunti che poi sistemiamo gli impegni. Sì, a tra poco”.

Cristiano Prakash Dorigo
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È passato qualche giorno e mi piacerebbe dire qualcosa su Celentano a Sanremo, rischiando di dire banalità e di sfiorare il ridicolo. La prima cosa che mi viene in mente ripensando a sabato sera è l’innocenza: chi glielo fa fare ad un uomo ricco e famoso, che potrebbe campare sulla sua fama, che poteva dire due robette sul degrado della politica, dei costumi, ecc., giocando sulla retorica tanto amata dal popolino del festival, a parlare di Dio, di Gesù, dei preti?
Sgombrando il campo dalle finte ingenuità, dalle furbizie dei saputelli, da chi vede stratificazioni occulte anche nelle palesi e inequivocabili porcate che si perpetrano quotidianamente in questo paese devastato dalla pochezza; insomma, considerato che uno così poteva firmare un assegno e farsi scrivere un bel monologo acuto da gente alla Serra et simili, perché ha detto quello che ha detto? Io non ho risposte all’altezza della situazione, non ho certezze tali da zittire quei furbi cui sopra, ma ho a disposizione le mie sensazioni.
Le sensazioni sono quanto di più soggettivo ci sia, lo sanno tutti; ebbene, nel mio caso, mi hanno permesso di superare l’apparenza e di sentire, prima ancora di pensare, a quanto sto per scrivere, pur sapendo che rischio di esprimere una delle tante verità possibili, e forse impossibili.
Credo che quest’artista con un paio di mosse, di silenzi, di canzoni, avrebbe ottenuto la propria e l’altrui pace dei sensi. E invece, siccome ha sempre seguito il proprio istinto, ci si è affidato e ha ceduto alla tentazione di declamare il suo personale catechismo: per un uomo che ha molti più ricordi e rimpianti che futuro, contrariamente a quanto molti dei suoi coetanei fanno, e cioè conservare e far putrefare ricordi e verità indicibili, si lascia andare e parla del paradiso. Sentir parlare del paradiso in modo autentico mi commuove. Non ricordo altre persone che ne parlino in modo così scoperto, se non Giulio Mozzi, scrittore bravissimo e intelligente. Lo dico in qualità di non credente, che in quanto tale, si è sicuramente perso i molti discorsi sulla fede e sulle scritture e forse non ha voce in capitolo. Anche quel che riguarda il preoccuparsi di politica invece che di Dio, da parte della chiesa,  mi pare scaturito dallo stesso stupore: ma come, invece di parlare di eternità, di altezze smisurate, vi abbassate e vi mischiate con le cose terrene?
Concludo dicendo che non credo gli abbiano giovato queste critiche, che non ne avrà vantaggi, che non si è trattato di un calcolo, che mi è sembrato sincero. Che ciò che lo spinge sia il non sapersi adeguare ai tempi moderni, quando questi sono i tempi della finanza, della corruzione, della sopraffazione.
Ma sono solo le sensazioni di un non credente, di uno che crede ancora che ci siano persone autentiche e altre che non lo sono, che non è un fan di Celentano, che avrebbe fatto vincere i Marlene Kuntz o Finardi, che ha visto Sanremo solo un’ora in tutto e che potrebbe vivere benissimo senza.
Cristiano Prakash Dorigo

sabato 18 febbraio 2012



Piove, marzo.
Mi chiama Haruki, dice che ha il corpo ricoperto di segni rossi; è uno sfogo cutaneo. Mi chiede, per favore, di raggiungerlo.
Arrivo davanti casa sua. Suono, mi apre il portoncino.
Entro in casa. È vestito con una brutta tuta da ginnastica. È sciupato, ha il viso macchiato e gonfio.
Gli chiedo cosa sia successo.
Mi fa sedere, porta un té e finalmente parla.
“Da cinque mesi sto facendo una terapia per dei seri problemi al fegato e al pancreas. Ho cambiato diversi  farmaci, ma non si sa a quale sia allergico. Devo farmi ricoverare per accertamenti”.
“Cinque mesi che fai la terapia? Ma io non sapevo niente, e… scusa ma sono sconvolto… Sei sempre stato solo, ti sei sempre tenuto tutto dentro…”, dico io.
“Lo so! E ora me la faccio sotto. Mia moglie non sa niente, non ho avuto il coraggio di dirle niente e non so come affrontare sto casino… Scusa …”, la voce è debole, il tono della commozione e dell’umiliazione; nasconde tra le mani un pianto di chi non è abituato a farsi vedere così, e corre verso il bagno.
Lo seguo, busso, entro e l’abbraccio.
“Sono qui con te… Ti voglio bene…”, dico mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime e la voce mi si strozza.  L’abbraccio con gli occhi chiusi, ma non sento niente. È la persona con cui sono cresciuto, con cui ho condiviso viaggi e storie. E non sento niente. Lo stringo e lui diventa di gomma morbida, mi si modella addosso fino a non sentirlo più. Scricchiola come fosse in decomposizione, come cenere di brace che si polverizza. Non sento male, non provo nulla. Poi riapro gli occhi e lui è lì; evitiamo di guardarci negli occhi per non umiliarci ancor di più.
“Torniamo di là e chiamiamo l'ospedale”, dico.
Chiama lui, spiega la sua posizione. È ingegnere nucleare, lavora in centrale da sette anni e sì, forse c’è stata una piccola fuga di uranio; o forse è successo quando è andato con la squadra di tecnici volontari a ripristinare la corrente elettrica dopo lo tsunami. In azienda dicono che non ha tracce di radioattività, che non è contagioso, che non si può escludere che si tratti di un effetto collaterale dovuto alla missione.
Gli dicono che manderanno un’ambulanza.
Ascolto in silenzio la telefonata. Gli dico di non
preoccuparsi per la moglie; chiederemo consiglio ai medici, Nel frattempo diremo che è uno sfogo allergico. Si rilassa un poco. La realtà ci impone di essere forti.
Si fa silenzio.
La casa ne è invasa.
Usciamo, dobbiamo andare, l’ambulanza sarà qui a momenti.
Fuori piove. S’alza il vento, sempre più forte.
Mi volto verso la casa. Un lampo improvviso, inaspettato, si accende dall’appartamento di Haruki.
Uno scoppio, una deflagrazione fa volare pezzi di vetro, carne, schegge di plastica, legno. Il condominio si gonfia, scoppia, s’accartoccia, s’incendia, si ripiega e infine si disintegra. Il tutto dura pochi secondi. Lo spostamento d’aria mi scaraventa verso l'alto con un’energia tale, che non avrei mai potuto immaginare nemmeno col pensiero; non c’è più nulla né davanti né dietro me. Non c’è più Haruki, non c'è l’ambulanza, la strada, la città, il mondo, il pensiero, il sentimento, l'emozione.
Tutto ormai è soltanto niente.
Sto galleggiando nell’aria.
Volteggio e roteo.
Mi perdo nella non dimensione cui appartengo: né vivo, né morto.

Mi sveglio tutto sudato.
Mi guardo attorno sconvolto.
La camera è piena di brandine, la camera non è una camera: è una palestra.

È marzo, è il 2011.
Mi chiamo Yamaguchi e tra morti, dispersi e vivi, se potessi scegliere, vorrei dormire senza dover sognare questi incubi.

Cristiano Prakash Dorigo
Marzo 2011

giovedì 16 febbraio 2012


Davanti al mare, seduto, tardo pomeriggio.
Sto in piedi e guardo e ascolto.
Sembra tutto, sempre, uno stesso moto perpetuo.
Sto così un minuto, cinque, dieci.
Poi mi siedo, decido.
Rilasso le spalle, che mi accorgo essere tese.
In posizione a gambe incrociate, rilassando il più possibile i muscoli.
Che non è che si rilassino il più possibile; basta non tenderli.

Seduto così a gambe incrociate, m’accorgo di non essermi messo comodo prima perché pensavo agli altri; a cosa avrebbero potuto pensare di me.
Di quest’uomo-ragazzo che viene in spiaggia con la figlia e che legge, sta spesso in silenzio, non socializza come gli altri.
Che ha perduto da poco persone importanti che non vivono più.
che stia impazzendo, che stia piangendo, che stia così per posa?”
sto nullando, sto nientendo”, risponderei loro.
e dovreste provarci, qualche volta”, aggiungerei.
sapeste quanto sia ricco questo apparente nulla immutabile, questo rumore di onde, questa schiuma, quest’orizzonte, questa bellezza evidente eppure mesta, disinteressata all’esibizione”, direi, se avessi voglia di parlare.
E invece taccio.
E ristoro la mente, quieto i pensieri, smusso gli angoli, tradisco la fretta, aborrisco l’inutilità, sposo e bacio e lecco l’essenza.

Poi m’alzo.
Lo faccio quando m’accorgo che quella gioia sta per diventare posa.
Quando l’orgoglio di saper talvolta vedere e sentire diventa orgoglio.
L’ego non dà tregua.
E mi riporta al sonno delle abitudini.
Sono stato bene con me.
Quando mi sono dimenticato di me, e sono stato.
Ritorno con calma verso un gruppo di conoscenti e chiedo se han bisogno d’aiuto, per riportare alla base, “la capanna” – che spiegherò cos’è, per chi non è mai stato al Lido di Venezia, un giorno -, le molte cose che avevano trascinato in riva al mare.

Mi volto per un ultimo sguardo verso il mare.
Ma vedo solo sabbia e acqua.

cristiano prakash dorigo

mercoledì 15 febbraio 2012

The Cinematic Orchestra feat. Fontella Bass "All That You Give"
album "Every Day" 2002


lunedì 13 febbraio 2012


Sono stato alla conferenza stampa di Cà Tron.


Brevemente: da qualche anno hanno occupato in quanto c’era il rischio di vendita del palazzo, scongiurato il quale, il senato accademico ha deciso di investire e restaurare, e ha inoltre riconosciuta la meritoria attività culturale del gruppo di occupanti.
Insomma, cadute le ragioni dell’occupazione, hanno deciso di confrontarsi in un contesto più formale.
Ecco alcune suggestioni che mi giravano in testa mentre li ascoltavo.
Pensavo soprattutto ad un elemento primario: al bisogno ancestrale di esistere in relazione con gli altri.
Ogni occupazione ha in sé spinte e istanze discutibili, discusse, giuste o sbagliate, condivisibili o meno. E quasi ogni volta si discute in termini di diritti, di violazioni, di spazi, di recriminazioni che suonano, ambo le parti, vuote: lo sembrano perché paiono voler raggiungere uno scopo, e che per raggiungerlo occorra sfoderare il pacchetto di parole retoriche, un po’ finte, o quantomeno non sentite, ma solo strategicamente pronunciate.
A me pare che il punto centrale fosse il desiderio o, mi ripeto, il bisogno, di stare insieme, di discutere, di analizzare, di monitorare fenomeni legati nello specifico al territorio, al suo svuotamento, alle azioni politiche che ne fanno sempre più un tesoro da sfruttare, e sempre meno una città da abitare.
Il tutto, con  gentilezza e garbo inconsueti, o almeno lontani dai luoghi comuni che immaginano tribù di ragazzini infoiati che urlano cose senza senso.
L’università come ponte tra il sapere formale degli studenti, e i bisogni della cittadinanza che non ha spazi in cui trovarsi e parlare; organizzare eventi culturali perché la cultura consente di tradurre e interpretare l’esistente.
Concludo sottolineando come uno dei bisogni primari dell’uomo, quello di costruire relazioni sociali, sia stato in questi anni compromesso da abitudini tendenti all’isolamento. Ricordo la Venezia della mia infanzia, dove le calli, i campi, le corti erano piene di persone che si trovavano, chiacchieravano, intessevano relazioni. Era una comunità viva, attiva che formava un tessuto sociale significativo: ma parlo di una città, di un comune, che contava quasi centomila abitanti in più, che si sono spalmati nell’infinita suburbia del nord est: un agglomerato bellino e ordinato, ma socialmente sterile, formato da pendolari stanchi, da trasporti inefficienti, di cui tutti parlano e si lamentano, senza però organizzarsi per porvi rimedio.
Pensavo a questo mentre si dicevano le ragioni dell’occupazione e della decisione di intraprendere una nuova fase, che riconosca le loro ragioni e le sdogani in istanze pertinenti e importanti. E di come questa sia un’opportunità per tutti: studenti, cittadini, associazioni: persone insomma, cui è data una possibilità da non svilire, semplicemente appoggiandola, ma partecipandola.

Cristiano Prakash Dorigo

domenica 12 febbraio 2012


Pensavo a Giovanni Lindo Ferretti in questi giorni.
Ci pensavo in relazione alla neve e al fatto che lui abita nell’appennino, in un paese di montagna isolato, pieno di vecchi, per quanto pieno possa essere un paese con poche centinaia di abitanti.
Pensavo alla sua casa, alla stalla, al fuoco del camino, alla legna, al tetto, alla quantità di neve a intasare le stradine, ai suoi cavalli, alle sue preghiere, alle sue scorte di mangiare, bere, fumare.
Pensavo alla sua beatitudine, alle sue rabbie, alle angosce, alle visioni, alla leggerezza, alla fatica, al bisogno, sua unica condizione possibile, di essere quello che è.
Pensavo al percorso della sua vita, che conosco così poco, e che invece credo di conoscere abbastanza bene da potermene fare un’idea; a tal punto da non riuscire a provare nei suoi confronti amore, tenerezza, rispetto, ma anche repulsione, bisogno di distanza: perché so quanto può essere terribile stare vicini ad una persona che vive così in profondità sé stesso, a tal punto da sfidare il mondo. Un mondo che non sa che lui non può scegliere, che non sta provocando: che non sa che può essere solo ciò che è, che non gli è concessa alternativa, possibilità, che essere così.
Pensavo che è uno dei pochi che ha avuta la mia fiducia incondizionata, che lui e pochi altri sono persone a cui mi sento così vicino da dovermene allontanare. Un tempo, quando la musica era la mia religione, lui era importante, ascoltavo le parole che cantava senza voce, sgraziato, eppure così profondo.
Pensavo che ci sono persone che hanno un potere che non immaginano di avere, che è anche la ragione per cui probabilmente si detestano: quello della stretta prossimità con la propria verità.
Pensavo che in questi ultimi anni ha perso molti amici e molti suoi seguaci, che è stato avvicinato e sfruttato da servi che a loro volta sfruttano perché è la sola dimensione che conoscono, e che questo gli è costato caro: chissà, mi chiedevo, se avrà trovato qualcuno che l’ha aiutato a spalare la neve, ad approvvigionarsi, che sia andato in farmacia al posto suo perché febbricitante.
Pensavo a come mi faccio influenzare da quello che leggo, che sento, che fantastico, e che magari è solo la mia mente che tende a fare dei rendiconti sperando di trasformarli in materiale da cui poter trarre qualcosa da scrivere.
Pensavo al suo rapporto col sesso; se lo ha trasceso e superato, se ha occasioni che non siano solo masturbatorie, se muore dalla voglia di chiavare e si aggrappa alla fede, se riversa il suo amore ai cavalli, se li ama fino in fondo, fino allo stremo, al parossismo.
Pensavo a quando se ne va per i monti, in quel silenzio puro, in mezzo a quegli odori di bosco, all’asprezza delle condizioni climatiche, alla sua pelle segnata, alla sua bruttezza estetica che si trasforma in bellezza estatica.
Pensavo che vorrei andare a vedere dove abita, che un giorno ci andrò, che lo vedrò e ne sarò attratto ma gli starò lontano perché non lo desidero affatto. Forse vorrei dirgli che lo so che non vuole essere idolo di nessuno. E infatti nel mio caso non lo è: è solo un fratello, e io gli voglio un bene fraterno.

Cristiano Prakash Dorigo

mercoledì 8 febbraio 2012

JB - I Know It's Over (The Smiths cover)

il libro "homo sapiens nord est" si può comprare in poche librerie di Venezia, per ora.
Man mano che lo presenteremo, lascerò tracce.
Come postavo tempo fa, la mia è una scelta che ha più a che fare con la realtà reale che con quella ideologica: quelli come me- le migliaia di persone che scrivono libri senza essere scrittori affermati, pur essendo triste anche per questi ultimi-, sono destinati a vendere poco, per cui preferisco essere io stesso il promotore del mio libro, raccontandolo, inscenandolo con i supermarket nord est.
è una scelta discutibile, ma chiara.
volevo a tal proposito aggiungere altre opzioni per chi volesse acquistarlo:
lo si può fare attraverso carta di credito e spedizione postale;
attraverso il contrassegno postale;
in entrambi i casi, ci si dovrebbe rivolgere all'editrice "mare di carta", o direttamente a me.
l'invito è ovviamente di provarci, di confrontarsi con questi racconti che lasciano, a quanto pare, spaesati, dubbiosi, rabbiosi, intimoriti.
mi piacerebbe confrontarmici, e le prossime occasioni, che qui indicherò, spero servano a questo.
se comunque nel frattempo ha qualcuno ha qualcosa da dire, lo dica o taccia per sempre.

sabato 4 febbraio 2012



dal sito "letteralmente aperta", copio e incollo me. aggiungo solo che il tema della serata era "incontri", il limite una cartella. concludo specificando che mi sono ispirato liberamente ad una canzone di guccini, e che si dovrebbe cogliere qua e là, qualche frase...




MARTEDÌ 31 GENNAIO 2012

Testi

Ecco i primi due testi della serata del 26 gennaio dal titolo Incontri

'Sono nati per stare insieme' di Cristiano Prakash Dorigo


E’ in ritardo, come sempre, unica certezza della sua vita incerta. Chiude il portoncino con quattro mandate, con un automatismo robotico. Scende i gradini tre alla volta e correndo la incontra lungo le scale. La riconosce subito, uguale all’immagine che coltiva nei ricordi, con dieci anni in più ben distribuiti, nonostante la curva della loro età sia ormai parabola discendente. Sono due
bei quarantenni, e quasi nulla gli sembra cambiato in lei. Subito, l’impatto della sua presenza nei suoi circuiti neuronali. Pensa a tutto quello che sa, e sa che tutto quello che pensa non vale niente, appena più di poco, forse nemmeno quel poco e quel niente. Quello che sa, che pensa, è relativizzato dalla circolazione sanguigna, dal caos delle cellule che corrono qua e
là, su e giù, come non avesse più semafori a dirigere il traffico interiore, sempre controllato e pacato. Vaffanculo pacatezza e controllo. Il corpo s’impone, frena deciso: inversione a U. “Sei tu”, dice. “Sì”, risponde lei. “Cosa fai qui?” aggiunge d’istinto, pentendosi subito delle parole e del tono con cui ha pronunciata la frase. “Sono venuta a pagare il terapeuta del secondo piano”, dice lei, guardando il pavimento del pianerottolo con un movimento involontario: un riflesso del suo pudore. “Ti va un caffé, qui vicino c’è una pasticceria?” chiede lui. “Sì, certo che sì” risponde.

L’aspetta fuori, camminando avanti e indietro sotto i portici, in attesa.
Il portone si apre, lei esce. Vanno senza parlare verso la pasticceria, raggiungendo la saletta interna. Si siedono, lei sul divanetto e lui sulla sedia; lei appoggia le borse, si toglie il cappotto e lui si accorge di aver notato solo in quel momento com’era vestita e pettinata: aveva guardato solo i suoi occhi azzurro chiaro, riconoscendone la dimensione insondabile, benché trasparente
nell’esprimere i suoi stati d’animo. Sono seduti vicini, le gambe si toccano a tratti, sprigionando piccole cariche elettriche che corrono lungo i loro corpi. L’eccitazione è un’inesauribile fonte emozionale: ricorda gli elementi chimici pronti a fondersi, a reagire, a trasformarsi in altro da sé.
Ordina lui, d’istinto, senza chiederle conferma. “Non ha sbagliato”, dice lei, sottolineando, senza dirlo, che le sembra sintomatico quell’automatismo. Non dicono, ma sentono la contrazione del tempo: dieci anni di vite separate, passati e vissuti come tra parentesi. “Che strano trovarti oggi”, inizia a dire lei, “sono sette mesi che vengo in terapia in questo condominio e non ci siamo mai incrociati”. “Pensa che ci abito da tre anni e non conosco ancora tutti i vicini”, dice lui. “Ho iniziata la terapia dopo un periodo buio, in cui non riuscivo a vedere alcuna luce. Quanti figli hai?”, gli chiede. “Ho due figlie, una di sette e una di tre anni. Se vuoi dopo ti faccio vedere le foto, le ho qui
sul cellulare. Mi spiace per il tuo brutto periodo, e spero che la terapia ti aiuti.”, dice. “Scrivi ancora? Pensavo proprio a te quando mi sono detta, senza allegria, che la mia vita sembra un romanzo.
Quando ci siamo lasciati, dieci anni fa, era natale: la strada, le bancarelle chiuse, nessuno in giro e uno stupore bianco, come la neve che cadeva pigra quel giorno. Ti eri allontanato senza dire una parola e non eri più tornato. E per confermare la teoria delle coincidenze, come in un romanzo scritto male, lui si è ucciso per natale. Ora io e mia figlia, a natale, ci concediamo le vacanze in paesi che non lo festeggiano, per allontanarci dai ricordi”, fa lei. Silenzio. I loro occhi si incontrano, si catturano, fuggono, si ritrovano, rifuggono. Le loro gambe si sfiorano, e basta un tocco leggero e fugace a scatenare un’energia insostenibile: una massa di ricordi, rimpianti, sentimenti, sensi di colpa, coscienza, fuga, chiarezza, nausea, paura. Silenzio, occhi che roteano e fissano dettagli inutili: scatole di cioccolatini, focaccine, le divise delle banconiere, le scarpe di uno che beve un
caffé, la borsa firmata di una tipa.
Non sono più stati felici, si sono mancati da morire, sono morti e rinati monchi; sono nati per stare insieme e hanno sputato sul loro destino: sono un solo organismo vivente ormai moribondo, sono solo un banale lui e una triste lei. Sono qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa.
Lui si alza dal tavolino con una fatica di secoli sulle gambe, va verso la cassa con piedi pesanti di piombo, paga con mani arrugginite e tremolanti. Non capisce cosa dice la cassiera: le orecchie non distinguono suoni: producono solo brusio.
Si volta, lei non c’è più. Si guarda allo specchio di una vetrinetta, non vede nessuno. Esce in strada e respira a pieni polmoni, mentre si avvia verso il nulla che ha riempito di parvenze di vita che, in quel momento, si dissolvono. Guarda alla sua destra perché nota solo ora che la sua figura non produce ombra. “Almeno lei ha sempre avuto il coraggio di vivere dopo: io solo di
fingere”, si ritrova a pensare mentre corre verso l’autobus che riparte, 

incurante di lui e della sua vita incerta.


Cristiano Prakash Dorigo










Cristiano Prakash Dorigo